Il discorso sulla graduale evoluzione del diritto influenzata da
contingenze storiche e pratiche porta alla principale considerazione di due
tendenze tra loro distinte ma dipendenti: da un lato, la legislazione
frammentaria e composita (e non immune dalla circolazione di falsi) dava luogo
a una ampia incertezza del diritto;
dall’altro il forte bisogno di certezza dei diritti induceva a
rivolgersi ai poteri pubblici per ottenerne l’approvazione e la certificazione
delle transazioni fra privati.
Si assiste, per questo, ad un sempre maggiore ricorso agli interventi di
natura pubblicistica nel campo delle transazioni private. Si affidava
all’autorità pubblica, generalmente un notaio
nominato dal potere centrale o dall’autorità ecclesiale, il compito di far produrre
gli effetti giuridici al negozio mediante l’utilizzo di solennità che
conferissero la firmitas, la stabilità,
al negozio. Tali interventi contribuirono ad assottigliare quella già sfumata
differenza tra diritto pubblico e privato che era stata uno dei principi
cardini del diritto romano classico. Ciò perché, del diritto classico venne
meno anche il secondo principio cardine di tutta la disciplina privatistica:
quello per cui è la volontà a produrre un determinato effetto giuridico. Nel
tentativo di risolvere il problema di quale elemento producesse l’effetto giuridico
del negozio -il consenso o la forma- gli storici del diritto si sono
interrogati sulla funzione della parola convenientia,
l’incontro delle volontà delle parti, registrata in molti documenti notarili.
Secondo Cortese, l’aumentare dei contratti in cui si manifestava la convenientia non può, per il tempo di
cui si scrive, ancora rappresentare una spia del cambio della mentalità
giuridica verso la ripresa dell’autonomia contrattuale delle parti (Calasso). Nei secoli in
esame, la convenientia era ancora
semplicemente la dichiarazione resa dalle parti al notaio, ma l’effetto
obbligatorio rimaneva dipendente non dalla manifestazione della volontà delle
parti, ma dalla redazione formale dell’atto.
Il documento, la forma scritta
cioè, divenne lo strumento principe
utilizzato per conferire solennità – e dunque effetti – al negozio privato,
tanto che alcuni studiosi hanno parlato di incorporazione del diritto di
credito nella carta, alla stregua dei
moderni titoli al portatore. La teoria è, tuttavia, ancora prematura per
un’età, come quella in esame, in cui le transazioni commerciali aventi ad
oggetto somme di denaro non erano certamente di entità tale da poter costruire
l’impalcatura di un istituto giuridico vero e proprio.
In generale, si può dire che la
caratteristica principale del diritto di quest’epoca fu un nuovo modo di
concepire i diritti, non più in base alla loro titolarità ma all’apparenza:
l’esercizio o il godimento di un diritto erano garantiti non al titolare ma a
colui che “appariva come tale” in quanto in possesso della carta, o in quanto
“investito” di un diritto specifico la cui titolarità rimaneva in capo al
concedente.
Manifestazione di tale tendenza è l’ampio ricorso all’investitura. Con essa l’autorità pubblica “vestiva” un soggetto di
un complesso di poteri che potevano esercitarsi su persone o su cose. Uno degli
effetti del ricorso a questo tipo di transazioni era la “divisione” del diritto
di proprietà in due parti: un’ampia gamma di poteri dominicali passava in capo
al concessionario della cosa o del diritto di cui era investito, mentre la
titolarità astratta, ed il diritto a ricevere l’homagium, segno esteriore di questa titolarità, rimanevano in
capo al concedente.
La scuola germanistica ha tentato di ricondurre la derivazione del concetto
di vestitura ad un presunto antico “istituto di diritto germanico”, riflesso
dello spirito del popolo: la gewere. La
parola avrebbe indicato un istituto che garantiva tutela dei godimenti di cose
o di diritti in base all’apparenza, e non alla titolarità. Perdeva la sua ragione d’essere,
perciò, il binomio romanistico proprietà-
possesso (v.
Dibattito
della scuola storica fra romanisti -Savigny- e germanisti), perché non vi sarebbe distinzione
fra la titolarità del diritto (che dà luogo alla proprietà) e il fatto
qualificato e degno di tutela giuridica (il possesso). Una più
attenta analisi storiografica, basata su argomenti di tipo
linguistico-documentali, tuttavia, rivela come la parola, il linguaggio e le
caratteristiche principali della vestitura-gewere non derivino da un ancestrale
istituto di diritto germanico. Essi furono, piuttosto, la trasposizione in
leggi laiche di modelli ed istituti nati in ambito ecclesiastico ed utilizzati,
inizialmente, per “rivestire”
qualcuno che era stato ingiustamente “spoliato”
di una propria prerogativa (v. Eccezione di
spoglio- Decretali Pseudo Isidoriane).
La prima apparizione della parola revestire
in ambito giuridico si rintraccia infatti in un paio di leggi visigotiche emanate
intorno al 681, nelle quali il re Erwig “riveste” alcuni ribelli perdonati dei
loro diritti. Sia le concessioni di beni, sia i poteri militari e
giurisdizionali rientrano fra gli oggetti del provvedimento, sicché il revestire si configura come un atto che
conferisce ogni tipo di diritti grazie all’intervento dell’autorità pubblica.
Più che un istituto di arcaico diritto germanico, la vestitura-gewere appare come una ulteriore manifestazione dell’influenza
della religione sul diritto. Il collegamento fra la legislazione visigotica e
le decisioni del clero ispanico riuniti a concilio a Toledo sono evidenti, e la
struttura dell’istituto fa dipendere dall’autorità superiore tutti i poteri e i
diritti di cui gode colui che ne è investito.
Si cominciano, poi, nel medioevo a differenziare le varie forme di
concessione, di cui la contrattualistica agraria ci propone gli esempi più
significativi: enfiteusi, precaria e livello, oltre al più generale beneficium,
analizzato in precedenza.
Il sistema delle concessioni e delle vestiture riflette un’economia in
cerca della massima stabilità: la società non cerca un progresso economico e
gli individui non tendono a sfruttare i beni di cui sono titolari per
conseguire una condizione di vita migliore, ma si limitano a “vestirsi” di
diritti e doveri entrando in un meccanismo economico basato su concessioni che
tendono alla stabilità. Alla svalutazione dell’efficacia giuridica della
volontà dei contraenti fa riscontro, dunque, un parallelo ridursi dell’idea di
titolarità di diritti.
(a cura di
Chiara Casuccio)
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