Con il
compimento del diritto comune classico si ravvisa una
società trasformata e complessa, costituita da nuovi elementi: dalla
coesistenza di molti poteri, da un'economia in movimento che produce molta più
ricchezza e di conseguenza da un incremento degli scambi, dalla presenza di
sistemi di debito e di credito e da tanti poteri locali che sono cresciuti e
che si sono affermati. Tale società non può funzionare senza una
razionalizzazione dei rapporti tale che, nel momento del processo, non ci si
rivolge più a Dio ma si cerca il radicamento dei diritti nei soggetti titolari. Nell’Alto
Medioevo infatti la giustizia consisteva nella ricerca di un equilibrio
favorevole sia a Dio sia alle parti, con lo scopo di trovare un placitum, “ciò
che piace”, per cui la questione era trovare un assetto che potesse evitare il
conflitto, essendo pax e stabilitas valori
fondamentali dell’Alto Medioevo. Nel XII secolo le cose cambiano in quanto
si avverte una continua tensione nei rapporti fra i privati, fra le autorità
pubbliche fra loro e fra il potere pubblico ed i privati, per cui la questione era
piuttosto capire se a una determinata persona (intesa nel senso di soggetto di
diritto) fosse da riconoscere un certo diritto, concetto riassunto nel celebre
motto suum cuique tribuere, ovvero “riconoscere a ciascuno il
suo”, una delle caratteristiche della giustizia proposta nel Digesto.
Una società così rinnovata richiede un
approfondimento del diritto e questa mentalità trasforma completamente il mondo
e produce molteplici effetti di trasformazione. Uno degli ambiti più fecondi di tale trasformazione è quello delle
autonomie comunali in Italia centro-settentroniale, che hanno avuto ragione del
potere imperiale di Federico Barbarossa, consentendo anche una straordinaria
fioritura economica e di conseguenza artistica.
A cavallo tra XII e XIII secolo si assiste
alla precisazione della lingua volgare, usata anche in ambito letterario, a
differenza del periodo che si conclude nel XII secolo in cui si scriveva solo
in latino. Questo periodo colpisce per la crescita vertiginosa verificatasi in
un solo secolo, testimoniata proprio dalla crescita del volgare, culminata con
la Divina Commedia di Dante. È importante notare che la letteratura italiana
volgare non è affare solo dei chierici, ma anzi tocca molto da vicino i
giuristi. Il primo “utilizzatore” della lingua italiana, San Francesco, ad
esempio, non è mai stato prete. Tra i poeti del Dolce stil novo,
invece, ci sono molti giuristi (magistrati e non) che si esercitano nella
scrittura della poesia laica; celebre è ad esempio Pier delle Vigne, magistrato
di Federico II, di cui aveva curato gran parte della compilazione
legislativa.
Questa nuova società, distinta dalla
Chiesa, concorre alla formazione di una vera e propria cultura laica basata sul
diritto romano, la scienza laica per eccellenza, e alla letteratura volgare,
sostanzialmente laica.
Una grande novità, che dimostra la
flessibilità della Chiesa, sono gli ordini mendicanti, assolutamente ripensati
rispetto al modello benedettino, in quanto sono ordini ecclesiastici che si
mischiano con il mondo laico e con cui interagiscono quotidianamente.
Protagoniste di questo periodo sono le
Città che vengono ristrutturate per costruire piazze più ampie, poiché c’era
una grande platea di poveri che ascoltava la predicazione dei francescani o dei
domenicani.
A partire dalla metà del '200 l’equilibrio
istituzionale tra assemblea cittadina e consoli o potestà comincia a cedere,
comportando la trasformazione di molti Comuni che lasciano spesso il posto ad
un potere sovrano che si stabilizza infrangendo le regole dello statuto delle
Città, in quanto il governante invece di lasciare l’incarico o rimane in carica
o cambia lo statuto per ottenere un potere personale.
(vd. pag. 431- 434) Gradualmente si assiste al passaggio dal Comune alla Signoria ,
che è stato studiato approfonditamente da molti giuristi, tra i quali si
ricorda Bartolo da Sassoferrato, che nel trattato “De tyranno” della
prima metà del ‘300, espone per la prima volta il problema costituzionale della
legittimità del governo di molte città italiane che, attraverso dei “colpi di
stato”, hanno trasformato il loro assetto, passando da costituzioni
democratiche nelle quali non esisteva alcun potere assoluto a Signorie, nelle
quali c’era invece una concezione proprietaria del potere, trasmissibile dunque
agli eredi. Bartolo definisce questo tipo di sovranità come una tirannia, cioè
sostanzialmente illegittima, sostenendo che ci sono due casi in cui un governo
può essere definito tiranno:
•il primo è il caso del tirannus ex defectu tituli, ossia
un tiranno senza titolo di legittimazione (come nella situazione in cui
qualcuno si approfitta di una situazione di emergenza);
•il secondo è il caso del tirannus ex parte exercitii, ossia
quando qualcuno supera i limiti del potere definiti dalla legge.
La visione di Bartolo da Sassoferrato,
considerato un grandissimo giurista, è parecchio lucida; egli ha colto molto
chiaramente il rapporto fra norma e potere, per cui è la norma che in un primo
momento legittima il potere, poi lo regola. Quando il potere supera tali limiti
si tratta di tirannia e non di potere legittimo.
Contemporaneamente a questo, si configura
un altro fenomeno che emerge però all’inizio del ‘300, ovvero la progressiva
ascesa dell’importanza dei regni nazionali. Tra l’XI e il XII
secolo si consolidano i regni Normanni d’Inghilterra e di Sicilia mentre lungo
il Duecento si consolida anche il regno di Francia, che assume sempre più i connotati
di uno Stato (termine non ancora utilizzato a quel tempo, anche se comincia ad
apparire l’espressione allo status rei publicae, riferendosi alla
costruzione giuridica che chiarisce diritti e doveri delle istituzioni che
qualificano giuridicamente una comunità: nel caso del Regnum nazionale) :
il Re costituisce un meccanismo di prelievo fiscale unitario; si centralizza il
sistema giurisdizionale per cui ciascun suddito ha diritto di appellarsi al Re
(caratteristica già del regno d’Ignhilterra) e di conseguenza i giudici locali
non giudicavano arbitrariamente ma rimanevano aderenti alla politica regale ed
infine si costituisce un ceto di magistrati, funzionari della corona che
rendono il sistema giuridico funzionale alla politica della corona.
Questo processo all’inizio rientra nella
politica della Chiesa, che in chiave anti-imperiale aveva favorito il progresso
dei regni nazionali. Ancora una volta la politica messa in atto dalla Chiesa
poi si ritorce contro di essa, perché alla fine del Duecento, proprio il Regno
di Francia, pupillo della Chiesa, vive un gravissimo conflitto con Papa
Bonifacio VIII, il quale subisce un grave affronto da un magistrato del Re di
Francia, che si recò nella residenza del Papa ad Anagni e lo sequestrò per
qualche giorno. Quest’episodio, noto col nome “schiaffo di Anagni” (ma più
correttamente “oltraggio di Anagni”), pare provocò la morte di Bonifacio VIII a
causa della rabbia, poiché questi da una parte si proclamava come l’autorità
suprema di tutto il mondo e dall’altra proprio nel momento in cui la Chiesa
raggiungeva l’apice della propria politica di potere, il Papa di fatto viene
umiliato dal Re di Francia.
Proprio in questi anni Bonifacio VIII
promulga una norma, Unam sanctam, che non dispone nulla in
particolare, salvo affermare che chiunque si fosse ribellato all’autorità del
Papa sarebbe stato destinato ad andare all’inferno; questa norma singolare
assume la veste dell’ultimo disperato tentativo di imporre a tutti l’ubbidienza
ai dettami del Papa e allo stesso tempo è manifestazione di un mondo in
declino.
Dal Trecento inizia dunque la lunga crisi del sogno di una Chiesa
universale, che si protrarrà per due secoli fino a culminare nella riforma protestante del 1517
ma che affonda le sue radici proprio in questa fase.
Nel 1309 Bonifacio VIII muore e la sede
papale viene trasferìta da Roma ad Avignone, città che fa parte dei domìni di
San Pietro ma che si trova in Francia, vicino a Filippo IV detto il Bello.
Proprio a questo periodo risale il famoso Processo dei templari,
con cui si afferma la manifestazione del potere del re anche sulle
questioni spirituali ed è in realtà uno sfruttamento della procedura
ecclesiastica per incriminare l'ordine combattente creato per sostenere le
molte crociate fatte in Terra Santa e per amministrare le grandi ricchezze che
i crociati avevano conquistato nel Medio Oriente. Filippo il Bello, per fondare
la nuova potenza europea e per rifornire in maniera sostanziosa le casse della
corona, ricorre al procedimento dell’incriminazione di un condannato che
subisce sia la pena di morte sia la confisca dei beni, processo che deriva dal
diritto romano giustinianeo noto con il nome di crimen lesa
maiestatis, che consente procedure abbreviate per pervenire alla prova
della colpevolezza e prevede pene molto severe.
(vd. capitolo IX) Il riferimento al processo dei templari serve per richiamare una
reinterpretazione tardo medievale, destinata a sopravvivere per molto, ossia il
crimen laese maiestatis, utile per capire lo strutturarsi del diritto penale in
questo periodo. La procedura penale della fine medioevo è molto più violenta
rispetto a quella disciplinata nei regni romano barbarici, si pensi ad esempio
alla soluzione dei conflitti che erano state proposte nell’editto di Rotari o
nel Pactus Legis Salicae, dove il colpevole in caso di delitto poteva cavarsela
anche con il pagamento di una somma di denaro. L’uso della tortura si
incrementa dal 200. Nel medioevo che noi consideriamo più buio, la tortura non
c’era, e in caso di delitto per arrivare alla verità si ricorreva alla
divinità. Nel periodo del tardo impero romano (età molto colta rispetto a
quella medievale) è prevista invece la tortura eppure nel diritto a partire dal
‘200, infatti il tardo impero romano mette in piedi tale procedura riservata ai
crimini contro l’ imperatore che poi viene estesa ad una serie di altri crimini
che sembravano mettere in dubbio o a rischio l’ordine sociale e la persona
del’imperatore finisce quindi per coincidere con la pace sociale. La procedura
speciale è fatta di alcuni elementi particolari del momento della ricerca
delle prove e poi di alcune pene gravi. La ricerca delle prove viene fatta
attraverso la tortura, visto come mezzo per indurre l’accusato alla
confessione, perché la confessione è la migliore prova che ci sia, quindi la
procedura speciale che viene architettata per tutelare l’impero prevede appunto
dei modi di estorsione della verità, ossia mettere alla prova l’accusato
affinché confessi. La tortura non è una pena ma un mezzo
di inquisizione con il quale si effettua la ricerca delle prove e si induce
l'accusato alla confessione. Tra le cose che l’accusato deve confessare non vi
è solo l’atto ma anche l'eventuale accordo effettuato con terzi per il
compimento del fatto, cioè nella procedura di lesa maestà c’è anche il
nucleo di quel procedimento che oggi si incarna nella fattispecie del reato
associativo. Questo tipo di procedura è utile per servire anche a scopi
politici, nella situazione politica di quel periodo (comuni che diventano
signorie) il diritto penale consente l’uso della forza dello Stato per tutelare
la sovranità. Dal tempo dei Comuni italiani comincia a dilagare la procedura
inquisitoria, che nel Medioevo è stata dimenticata perchè il delitto contro
la persona si considera come un'offesa nei confronti di qualcuno e dunque deve
essere l’offeso ad accusare il reo (procedimento accusatorio), dopo di che, a
seguito dell'accusa, il giudice può iniziare il processo. Invece nel caso di
lesa maestà deve essere il magistrato stesso, che rappresenta il potere, ad
iniziare la ricerca (in latino “inquisitio”) del colpevole che ha rotto la pace
sociale. Inizialmente tale procedura è adottata da tutti i comuni italiani e
viene pensata dai giuristi che svolgono la funzione di magistrati. Infatti la
prima opera che raccoglie tutti i casi che hanno ad oggetto il funzionamento
della procedura inquisitoria e i dubbi che possono da questa sorgere è l’opera
di un giudice italiano che si chiama Alberto Gandino, che scrive il
Trattato Maleficiorum (trattato dei malefici), raccolta di quaestiones in cui
sono elencati una serie di problemi che ha incontrato nell' applicazione della
procedura inquisitoria. Ad esempio una quaestio dice che un
magistrato incrimina un uomo di aver compiuto un delitto e dispone la
tortura perché l’uomo confessi, ma l’accusato replica di avere le prove che
dimostrano la sua innocenza e perciò chiede di mostrare le prove prima che il
magistrato stesso proceda alla tortura. Si tratta di problemi
giuridici perché la procedura vuole che prima si svolga l’accusa del
magistrato inquirente e solo dopo l’accusato può replicare la sua innocenza
(vantaggio dell’accusato di parlare per secondo). La solutio è che in tale caso
solo su richiesta dell’accusato si può invertire l’ordine del dibattimento, per
evitare che la tortura provochi un danno permanente all’accusato che poi si
rivelerà innocente. I comuni, e poi dopo le signorie, hanno fatto molto
uso del procedimento inquisitorio per farne uno strumento di lotta politica, si
pensi ad es. a Dante che fu accusato di una serie di delitti insieme a quelli
del suo partito, la conseguenza di ciò fu che gli furono confiscati una serie
di beni. Infatti fra le pene del delitto di lesa maestà c’è la confisca di
tutti i beni (si pensi al processo dei templari e al processo di Dante
Alighieri).
C’è un esercizio del potere del tutto
nuovo che si serve delle forme giuridiche e che collega l’esercizio giudiziario
della giurisdizione a quello della sovranità. Proprio in questo periodo si
consolida la identificazione della sovranità suprema con la sovranità
divina e per tale motivo il processo inquisitorio viene attuato
naturalmente per tutti i reati che attentano alla sovranità divina (eresie,
reati di opinione). Si assiste anche ad una rinascita di un tema (già emerso
nel tardo antico): “l’unitarietà del credo”, di cui già Costantino nel Concilio
di Nicea se ne era preoccupato, perché per tenere in piedi un impero era
necessario credere tutti nella stessa struttura della divinità. La procedura
inquisitoria diventa strumento fondamentale di uniformazione, di controllo di
comportamenti ma anche delle idee delle persone, perché obbliga a credere.
L’attività inquisitoria del magistrato si innesca tramite un concetto di
diritto romano che viene applicato ad una situazione completamente nuova, cioè
il concetto di fama collegato a quello di infamia (vd da pag. 429),
cioè la voce pubblica costituisce la reputazione delle persone e possono
arrivare a qualificare qualcuno di infamia e in tal caso l’infamia è l'
elemento determinante per innescare il processo inquisitorio. Questa costruzione
del potere comincia ad utilizzare il diritto per dare “a ciascuno il suo” ma in
senso negativo, cioè quel senso che poi viene ripreso nella macabra scritta “Jedem
ds seine” che fu installata sul cancello di Auschwitz, ossia la manifestazione
più crudele del potere dello stato assoluto che si esercita sul corpo delle
persone. Ma torniamo al Trecento: si tratta di un periodo nel quale le
accennate trasformazioni mettono in crisi l’universalità della Chiesa, il
trasferimento delle sede papale ad Avignone dura 70 anni, dal 1309 al 1378, da
allora la Chiesa ha vissuto un susseguirsi ininterrotto di crisi e di continui
scismi, cioè di emersione di dottrine non ortodosse anche in conseguenza del
crescere inarrestabile dell’autorità degli stati nazionali: infatti molti
vescovi aderiscono piuttosto al loro sovrano nazionale (re) che all’autorità
del Papa. Questi continui scismi trovano proposte di soluzione nei Concili di
Basilea e di Costanza (1400), in cui si discute soprattutto dell’autorità del
Papa di fronte ai concili che iniziano a discutere della legittimità
dell’assolutismo e del confronto tra il potere del papa e quello dei concili
stessi.
(vd da pag. 368 a 397) Le questioni sociali, politiche ed economiche sono molto
vive e l’assetto dell’Europa è mutato con la polverizzazione di tanti poteri,
dallo stato alle signorie (si pensi alla repubblica di Venezia, o al ducato di
Milano). Alla moltiplicazione dei centri di potere corrisponde una
moltiplicazione delle università, dunque c’è una forma di rottura
dell’universalismo anche per quanto riguarda i centri di studio. Dal '200
emergono e si stabilizzano una pluralità di università, a partire da quella più
vicina alla Francia che configura la fondazione di quel ceto di magistrati,
capace anche di rappresentare il re (vd. Schiaffo di Anagni), il fenomeno è
quello della costituzione di centri formazione di giuristi che siano vicini ai
centri di poteri. Il Papa all’inizio del 1200 aveva proibito lo studio del
diritto civile a Parigi e allora i francesi avevano fondato un’università ad
Orleans, dove si comincia a studiare il diritto romano e dove si consolida la
tecnica della lectura o commentum. Il giurista più importante di questa scuola
è Jacques de Revigny, che redige una serie di lecture del Codice e
del Digesto vetus e delle Istituzioni che lanciano definitivamente questo
metodo didattico ed esegetico (il commentario), che deve identificare la ratio
delle norme che poi si applica anche a dei casi che la legge in questione non
aveva previsto. Jacques de Revigny si ricollega ad una serie di dottrine
importanti, Cortese ricorda la sua posizione in merito alla persona giuridica.
Egli adatta l’idea della persona alla res publica e si domanda chi sia il
titolare di tutti i beni del regno, a tal proposito afferma che il regno è una
persona in quanto è rappresentata da qualcuno che parla in suo nome,
il re. Il metodo del commento che aveva utilizzato Jacques de Revigny ebbe un
grande successo in Italia. Il metodo del commento che aveva utilizzato
ebbe un grande successo in Italia, la quale iniziava distinguere
l’insegnamento perché ogni signoria voleva una sua università dove si formava
il ceto dei giuristi locali.
(vd capitolo IX) Dal 200 si può delineare una mappa delle università
italiane: Venezia non ha un' università, ma ne ha una a Padova,
fondata nel 1222 da una migrazione di studenti bolognesi; il ducato di Milano
ha un' università a Pavia; la Toscana, che vede prevalere la signoria dei
Medici a Firenze, ha dei centri importanti a Pisa e Siena; lo stato della
Chiesa aveva l’università di Bologna e poi quella di Perugia. Nel 1303
Bonifacio VIII fonda anche l’università di Roma (la Sapienza) che non ebbe
grande successo. Infine Federico II nel 1224 aveva fonda la sua università a
Napoli. In queste università agiscono i grandi giuristi del '300 che
sono stati considerati gli esponenti della scuola dei commentatori, perché
seguono il modello perfezionato in Francia da Jaques de Revegny, ma già
presente in Italia con Odofredo.
Di questi giuristi se ne
ricordano tre che si sono avvicendati sulla cattedra di
diritto civile di Perugia:
· Cino da Pistoia , influenzato ampliamente dalla
scuola di Orleans e che lui stesso cita nella sua opera più importante che è il
commentario al Codice;
· Bartolo di Sassoferrato, a llievo
di Cino da Pistoia, che in pochi anni ha scritto tante opere che contengono
commentari a tutte le parti del C.J.C. ma non alle Istituzioni. Le
caratteristiche delle sue opere sono diverse, ci sono i commentari però ha
anche raccolto i problemi giuridici intorno a dei temi monografici cioè ha
fatto dei trattati di argomenti politici (es. guelfi e ghibellini) ma anche di
argomento privatistico-amministrativistico (es. amministrazione dei fiumi);
· Baldo degli Ubaldi , morto nel 1400,
il quale non si è limitato al diritto romano ma ha anche fatto una lettura del
Liber Extra (metà) e dei Liber feudorum, inoltre ha scritto molti consilia
(pareri del giureconsulto poi adottati dal giudice, ma se richiesti dalle parti
venivano pagati molto bene) che vennero poi raccolti in volumi ispirando
l'interpretazione del diritto.
1 commento:
Professore potrebbe indicare orientativamente i capitoli su cui verteranno le lezioni della prossima settimana, in modo tale da avere già una buona "infrarinatura" generale prima della lezione, visto che gli argomenti si fanno sempre più complessi. La ringrazio
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