giovedì 23 novembre 2017

Lezione del 22 novembre

Questa lezione è stata riassunta da quattro studentesse, che ringrazio molto.

Con il compimento del diritto comune classico si ravvisa una società trasformata e complessa, costituita da nuovi elementi: dalla coesistenza di molti poteri, da un'economia in movimento che produce molta più ricchezza e di conseguenza da un incremento degli scambi, dalla presenza di sistemi di debito e di credito e da tanti poteri locali che sono cresciuti e che si sono affermati. Tale società non può funzionare senza una razionalizzazione dei rapporti tale che, nel momento del processo, non ci si rivolge più a Dio ma si cerca il radicamento dei diritti nei soggetti titolari. Nell’Alto Medioevo infatti la giustizia consisteva nella ricerca di un equilibrio favorevole sia a Dio sia alle parti, con lo scopo di trovare un placitum, “ciò che piace”, per cui la questione era trovare un assetto che potesse evitare il conflitto, essendo pax stabilitas valori fondamentali dell’Alto Medioevo. Nel XII secolo le cose cambiano in quanto si avverte una continua tensione nei rapporti fra i privati, fra le autorità pubbliche fra loro e fra il potere pubblico ed i privati, per cui la questione era piuttosto capire se a una determinata persona (intesa nel senso di soggetto di diritto) fosse da riconoscere un certo diritto, concetto riassunto nel celebre motto suum cuique tribuere, ovvero “riconoscere a ciascuno il suo”, una delle caratteristiche della giustizia proposta nel Digesto. 
Una società così rinnovata richiede un approfondimento del diritto e questa mentalità trasforma completamente il mondo e produce molteplici effetti di trasformazione. Uno degli ambiti più fecondi di tale trasformazione è quello delle autonomie comunali in Italia centro-settentroniale, che hanno avuto ragione del potere imperiale di Federico Barbarossa, consentendo anche una straordinaria fioritura economica e di conseguenza artistica.
A cavallo tra XII e XIII secolo si assiste alla precisazione della lingua volgare, usata anche in ambito letterario, a differenza del periodo che si conclude nel XII secolo in cui si scriveva solo in latino. Questo periodo colpisce per la crescita vertiginosa verificatasi in un solo secolo, testimoniata proprio dalla crescita del volgare, culminata con la Divina Commedia di Dante. È importante notare che la letteratura italiana volgare non è affare solo dei chierici, ma anzi tocca molto da vicino i giuristi. Il primo “utilizzatore” della lingua italiana, San Francesco, ad esempio, non è mai stato prete.  Tra i poeti del Dolce stil novo, invece, ci sono molti giuristi (magistrati e non) che si esercitano nella scrittura della poesia laica; celebre è ad esempio Pier delle Vigne, magistrato di Federico II, di cui aveva curato gran parte della compilazione legislativa.  
Questa nuova società, distinta dalla Chiesa, concorre alla formazione di una vera e propria cultura laica basata sul diritto romano, la scienza laica per eccellenza, e alla letteratura volgare, sostanzialmente laica. 
Una grande novità, che dimostra la flessibilità della Chiesa, sono gli ordini mendicanti, assolutamente ripensati rispetto al modello benedettino, in quanto sono ordini ecclesiastici che si mischiano con il mondo laico e con cui interagiscono quotidianamente. 
Protagoniste di questo periodo sono le Città che vengono ristrutturate per costruire piazze più ampie, poiché c’era una grande platea di poveri che ascoltava la predicazione dei francescani o dei domenicani.
A partire dalla metà del '200 l’equilibrio istituzionale tra assemblea cittadina e consoli o potestà comincia a cedere, comportando la trasformazione di molti Comuni che lasciano spesso il posto ad un potere sovrano che si stabilizza infrangendo le regole dello statuto delle Città, in quanto il governante invece di lasciare l’incarico o rimane in carica o cambia lo statuto per ottenere un potere personale.
(vd. pag. 431- 434) Gradualmente si assiste al passaggio dal Comune alla Signoria , che è stato studiato approfonditamente da molti giuristi, tra i quali si ricorda Bartolo da Sassoferrato, che nel trattato “De tyranno” della prima metà del ‘300, espone per la prima volta il problema costituzionale della legittimità del governo di molte città italiane che, attraverso dei “colpi di stato”, hanno trasformato il loro assetto, passando da costituzioni democratiche nelle quali non esisteva alcun potere assoluto a Signorie, nelle quali c’era invece una concezione proprietaria del potere, trasmissibile dunque agli eredi. Bartolo definisce questo tipo di sovranità come una tirannia, cioè sostanzialmente illegittima, sostenendo che ci sono due casi in cui un governo può essere definito tiranno:
il primo è il caso del tirannus ex defectu tituli, ossia un tiranno senza titolo di legittimazione (come nella situazione in cui qualcuno si approfitta di una situazione di emergenza);
il secondo è il caso del tirannus ex parte exercitii, ossia quando qualcuno supera i limiti del potere definiti dalla legge. 
La visione di Bartolo da Sassoferrato, considerato un grandissimo giurista, è parecchio lucida; egli ha colto molto chiaramente il rapporto fra norma e potere, per cui è la norma che in un primo momento legittima il potere, poi lo regola. Quando il potere supera tali limiti si tratta di tirannia e non di potere legittimo.
Contemporaneamente a questo, si configura un altro fenomeno che emerge però all’inizio del ‘300, ovvero la progressiva ascesa dell’importanza dei regni nazionali.  Tra l’XI e il XII secolo si consolidano i regni Normanni d’Inghilterra e di Sicilia mentre lungo il Duecento si consolida anche il regno di Francia, che assume sempre più i connotati di uno Stato (termine non ancora utilizzato a quel tempo, anche se comincia ad apparire l’espressione allo status rei publicae, riferendosi alla costruzione giuridica che chiarisce diritti e doveri delle istituzioni che qualificano giuridicamente una comunità: nel caso del Regnum nazionale) : il Re costituisce un meccanismo di prelievo fiscale unitario; si centralizza il sistema giurisdizionale per cui ciascun suddito ha diritto di appellarsi al Re (caratteristica già del regno d’Ignhilterra) e di conseguenza i giudici locali non giudicavano arbitrariamente ma rimanevano aderenti alla politica regale ed infine si costituisce un ceto di magistrati, funzionari della corona che rendono il sistema giuridico funzionale alla politica della corona.  
Questo processo all’inizio rientra nella politica della Chiesa, che in chiave anti-imperiale aveva favorito il progresso dei regni nazionali. Ancora una volta la politica messa in atto dalla Chiesa poi si ritorce contro di essa, perché alla fine del Duecento, proprio il Regno di Francia, pupillo della Chiesa, vive un gravissimo conflitto con Papa Bonifacio VIII, il quale subisce un grave affronto da un magistrato del Re di Francia, che si recò nella residenza del Papa ad Anagni e lo sequestrò per qualche giorno. Quest’episodio, noto col nome “schiaffo di Anagni” (ma più correttamente “oltraggio di Anagni”), pare provocò la morte di Bonifacio VIII a causa della rabbia, poiché questi da una parte si proclamava come l’autorità suprema di tutto il mondo e dall’altra proprio nel momento in cui la Chiesa raggiungeva l’apice della propria politica di potere, il Papa di fatto viene umiliato dal Re di Francia. 
Proprio in questi anni Bonifacio VIII promulga una norma, Unam sanctam, che non dispone nulla in particolare, salvo affermare che chiunque si fosse ribellato all’autorità del Papa sarebbe stato destinato ad andare all’inferno; questa norma singolare assume la veste dell’ultimo disperato tentativo di imporre a tutti l’ubbidienza ai dettami del Papa e allo stesso tempo è manifestazione di un mondo in declino.
Dal Trecento inizia dunque la lunga crisi del sogno di una Chiesa universale, che si protrarrà per due secoli fino a  culminare nella riforma protestante del 1517 ma che affonda le sue radici proprio in questa fase.
Nel 1309 Bonifacio VIII muore e la sede papale viene trasferìta da Roma ad Avignone, città che fa parte dei domìni di San Pietro ma che si trova in Francia, vicino a Filippo IV detto il Bello. Proprio a questo periodo risale il famoso Processo dei templari, con cui si afferma la manifestazione del potere del re anche sulle questioni spirituali ed è in realtà uno sfruttamento della procedura ecclesiastica per incriminare l'ordine combattente creato per sostenere le molte crociate fatte in Terra Santa e per amministrare le grandi ricchezze che i crociati avevano conquistato nel Medio Oriente. Filippo il Bello, per fondare la nuova potenza europea e per rifornire in maniera sostanziosa le casse della corona, ricorre al procedimento dell’incriminazione di un condannato che subisce sia la pena di morte sia la confisca dei beni, processo che deriva dal diritto romano giustinianeo noto con il nome di crimen lesa maiestatis, che consente procedure abbreviate per pervenire alla prova della colpevolezza e prevede pene molto severe.
(vd. capitolo IX) Il riferimento al processo dei templari serve per richiamare una  reinterpretazione tardo medievale, destinata a sopravvivere per molto, ossia il crimen laese maiestatis, utile per capire lo strutturarsi del diritto penale in questo periodo. La procedura penale della fine medioevo è molto più violenta rispetto a quella disciplinata nei regni romano barbarici, si pensi ad esempio alla soluzione dei conflitti che erano state proposte nell’editto di Rotari o nel Pactus Legis Salicae, dove il colpevole in caso di delitto poteva cavarsela anche con il pagamento di una somma di denaro. L’uso della tortura si incrementa dal 200. Nel medioevo che noi consideriamo più buio, la tortura non c’era, e in caso di delitto per arrivare alla verità si ricorreva alla divinità. Nel periodo del tardo impero romano (età molto colta rispetto a quella medievale) è prevista invece la tortura eppure nel diritto a partire dal ‘200, infatti il tardo impero romano mette in piedi tale procedura riservata ai crimini contro l’ imperatore che poi viene estesa ad una serie di altri crimini che sembravano mettere in dubbio o a rischio l’ordine sociale e la persona del’imperatore finisce quindi per coincidere con la pace sociale. La procedura speciale è  fatta di alcuni elementi particolari del momento della ricerca delle prove e poi di alcune pene gravi. La ricerca delle prove viene fatta attraverso la tortura, visto come mezzo per indurre  l’accusato alla confessione, perché la confessione è la migliore prova che ci sia, quindi la procedura speciale che viene architettata per tutelare l’impero prevede appunto dei modi di estorsione della verità, ossia mettere alla prova l’accusato affinché confessi. La tortura non è una pena ma un mezzo di inquisizione con il quale si effettua la ricerca delle prove e si induce l'accusato alla confessione. Tra le cose che l’accusato deve confessare non vi è solo l’atto ma anche l'eventuale accordo effettuato con terzi per il compimento del fatto, cioè nella procedura di lesa maestà c’è anche il nucleo di quel procedimento che oggi si incarna nella fattispecie del reato associativo. Questo tipo di procedura è utile per servire anche a scopi politici, nella situazione politica di quel periodo (comuni che diventano signorie) il diritto penale consente l’uso della forza dello Stato per tutelare la sovranità. Dal tempo dei Comuni italiani comincia a dilagare la procedura inquisitoria, che nel Medioevo è stata dimenticata perchè il delitto contro la persona si considera come un'offesa nei confronti di qualcuno e dunque deve essere l’offeso ad accusare il reo (procedimento accusatorio), dopo di che, a seguito dell'accusa, il giudice può iniziare il processo. Invece nel caso di lesa maestà deve essere il magistrato stesso, che rappresenta il potere, ad iniziare la ricerca (in latino “inquisitio”) del colpevole che ha rotto la pace sociale. Inizialmente tale procedura è adottata da tutti i comuni italiani e viene pensata dai giuristi che svolgono la funzione di magistrati. Infatti la prima opera che raccoglie tutti i casi che hanno ad oggetto il funzionamento della procedura inquisitoria e i dubbi che possono da questa sorgere è l’opera di un giudice italiano che si chiama Alberto Gandino, che scrive il Trattato Maleficiorum (trattato dei malefici), raccolta di quaestiones in cui sono elencati una serie di problemi che ha incontrato nell' applicazione della procedura inquisitoria. Ad esempio una quaestio dice che un  magistrato incrimina un uomo di aver compiuto un delitto e dispone la tortura perché l’uomo confessi, ma l’accusato replica di avere le prove che dimostrano la sua innocenza e perciò chiede di mostrare le prove prima che il magistrato stesso proceda alla tortura.  Si tratta di problemi giuridici perché la procedura vuole che prima si svolga l’accusa del magistrato inquirente e solo dopo l’accusato può replicare la sua innocenza (vantaggio dell’accusato di parlare per secondo). La solutio è che in tale caso solo su richiesta dell’accusato si può invertire l’ordine del dibattimento, per evitare che la tortura provochi un danno permanente all’accusato che poi si rivelerà innocente. I comuni, e poi dopo le signorie, hanno fatto molto uso del procedimento inquisitorio per farne uno strumento di lotta politica, si pensi ad es. a Dante che fu accusato di una serie di delitti insieme a quelli del suo partito, la conseguenza di ciò fu che gli furono confiscati una serie di beni. Infatti fra le pene del delitto di lesa maestà c’è la confisca di tutti i beni (si pensi al processo dei templari e al processo di Dante Alighieri).
C’è un esercizio del potere del tutto nuovo che si serve delle forme giuridiche e che collega l’esercizio giudiziario della giurisdizione a quello della sovranità. Proprio in questo periodo si consolida la identificazione della sovranità suprema con la sovranità divina e per tale motivo il processo inquisitorio viene attuato naturalmente per tutti i reati che attentano alla sovranità divina (eresie, reati di opinione). Si assiste anche ad una rinascita di un tema (già emerso nel tardo antico): “l’unitarietà del credo”, di cui già Costantino nel Concilio di Nicea se ne era preoccupato, perché per tenere in piedi un impero era necessario credere tutti nella stessa struttura della divinità. La procedura inquisitoria diventa strumento fondamentale di uniformazione, di controllo di comportamenti ma anche delle idee delle persone, perché obbliga a credere. L’attività inquisitoria del magistrato si innesca tramite un concetto di diritto romano che viene applicato ad una situazione completamente nuova, cioè il concetto di fama collegato a quello di infamia (vd da pag. 429), cioè la voce pubblica costituisce la reputazione delle persone e possono arrivare a qualificare qualcuno di infamia e in tal caso l’infamia è l' elemento determinante per innescare il processo inquisitorio. Questa costruzione del potere comincia ad utilizzare il diritto per dare “a ciascuno il suo” ma in senso negativo, cioè quel senso che poi viene ripreso nella macabra scritta “Jedem ds seine” che fu installata sul cancello di Auschwitz, ossia la manifestazione più crudele del potere dello stato assoluto che si esercita sul corpo delle persone. Ma torniamo al Trecento: si tratta di un periodo nel quale le accennate trasformazioni mettono in crisi l’universalità della Chiesa, il trasferimento delle sede papale ad Avignone dura 70 anni, dal 1309 al 1378, da allora la Chiesa ha vissuto un susseguirsi ininterrotto di crisi e di continui scismi, cioè di emersione di dottrine non ortodosse anche in conseguenza del crescere inarrestabile dell’autorità degli stati nazionali: infatti molti vescovi aderiscono piuttosto al loro sovrano nazionale (re) che all’autorità del Papa. Questi continui scismi trovano proposte di soluzione nei Concili di Basilea e di Costanza (1400), in cui si discute soprattutto dell’autorità del Papa di fronte ai concili che iniziano a discutere della legittimità dell’assolutismo e del confronto tra il potere del papa e quello dei concili stessi.
(vd da pag. 368 a 397)   Le questioni sociali, politiche ed economiche sono molto vive e l’assetto dell’Europa è mutato con la polverizzazione di tanti poteri, dallo stato alle signorie (si pensi alla repubblica di Venezia, o al ducato di Milano). Alla moltiplicazione dei centri di potere corrisponde una moltiplicazione delle università, dunque c’è una forma di rottura dell’universalismo anche per quanto riguarda i centri di studio. Dal '200 emergono e si stabilizzano una pluralità di università, a partire da quella più vicina alla Francia che configura la fondazione di quel ceto di magistrati, capace anche di rappresentare il re (vd. Schiaffo di Anagni), il fenomeno è quello della costituzione di centri formazione di giuristi che siano vicini ai centri di poteri. Il Papa all’inizio del 1200 aveva proibito lo studio del diritto civile a Parigi e allora i francesi avevano fondato un’università ad Orleans, dove si comincia a studiare il diritto romano e dove si consolida la tecnica della lectura o commentum. Il giurista più importante di questa scuola è Jacques de Revigny, che redige una serie di lecture del Codice e del Digesto vetus e delle Istituzioni che lanciano definitivamente questo metodo didattico ed esegetico (il commentario), che deve identificare la ratio delle norme che poi si applica anche a dei casi che la legge in questione non aveva previsto. Jacques de Revigny si ricollega ad una serie di dottrine importanti, Cortese ricorda la sua posizione in merito alla persona giuridica. Egli adatta l’idea della persona alla res publica e si domanda chi sia il titolare di tutti i beni del regno, a tal proposito afferma che il regno è una persona in  quanto è rappresentata da qualcuno che parla in suo nome, il re. Il metodo del commento che aveva utilizzato Jacques de Revigny ebbe un grande successo in Italia. Il metodo del commento che aveva utilizzato ebbe un grande successo in Italia, la quale  iniziava distinguere l’insegnamento perché ogni signoria voleva una sua università dove si formava il ceto dei giuristi locali.
(vd capitolo IX)  Dal 200 si può delineare una mappa delle università italiane:  Venezia non ha un' università, ma ne ha una a Padova, fondata nel 1222 da una migrazione di studenti bolognesi; il ducato di Milano ha un' università a Pavia; la Toscana, che vede prevalere la signoria dei Medici a Firenze, ha dei centri importanti a Pisa e Siena; lo stato della Chiesa aveva l’università di Bologna e poi quella di Perugia. Nel 1303 Bonifacio VIII fonda anche l’università di Roma (la Sapienza) che non ebbe grande successo. Infine Federico II nel 1224 aveva fonda la sua università a Napoli. In queste università  agiscono i grandi giuristi del '300 che sono stati considerati gli esponenti della scuola dei commentatori, perché seguono il modello perfezionato in Francia da Jaques de Revegny, ma già presente in Italia con Odofredo.
Di questi giuristi se ne ricordano  tre che si sono avvicendati sulla cattedra di diritto civile di Perugia:
· Cino da Pistoia , influenzato ampliamente dalla scuola di Orleans e che lui stesso cita nella sua opera più importante che è il commentario al Codice;
· Bartolo di Sassoferrato, a llievo di Cino da Pistoia, che in pochi anni ha scritto tante opere che contengono commentari a tutte le parti del C.J.C. ma non alle Istituzioni. Le caratteristiche delle sue opere sono diverse, ci sono i commentari però ha anche raccolto i problemi giuridici intorno a dei temi monografici cioè ha fatto dei trattati di argomenti politici (es. guelfi e ghibellini) ma anche di argomento privatistico-amministrativistico (es. amministrazione dei fiumi);
· Baldo degli Ubaldi , morto nel 1400, il quale non si è limitato al diritto romano ma ha anche fatto una lettura del Liber Extra (metà) e dei Liber feudorum, inoltre ha scritto molti consilia (pareri del giureconsulto poi adottati dal giudice, ma se richiesti dalle parti venivano pagati molto bene) che vennero poi raccolti in volumi ispirando l'interpretazione del diritto.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Professore potrebbe indicare orientativamente i capitoli su cui verteranno le lezioni della prossima settimana, in modo tale da avere già una buona "infrarinatura" generale prima della lezione, visto che gli argomenti si fanno sempre più complessi. La ringrazio