E' un problema delicato perché storico e teorico nello stesso tempo. Come vi ho spiegato a lezione, bisogna partire dalla riscoperta di Aristotele, che tra XII e XIII secolo diventa il punto di riferimento della filosofia scolastica. Aristotele insegnava che sapere vuol dire "res per causas cognoscere", cioè conoscere le cose attraverso le loro cause. Questo è vero anche per le azioni degli uomini, che noi possiamo conoscere cercando di comprenderne il motivo e lo scopo, cioè le cause.
Si tratta di una visione dinamica dell'agire umano, che privilegia la volontà e riscopre il potere creativo dell'individuo.
Questa visione della volontà è molto importante per il diritto, che ricollega ad essa effetti molto importanti sia nel diritto privato sia nel pubblico. Nel diritto privato, è il negozio giuridico che produce effetti reali od obbligatori in conseguenza della volontà dei privati. Nel pubblico è la volontà qualificata del legislatore che produce l'obbligo universale che deriva dalla legge.
Ecco perché già i glossatori si servirono della dottrina aristotelica della causa per conoscere la volontà e per ricollegare ad essa gli effetti previsti dall'ordinamento.
Questa è la premessa. Qualcuno sa spiegare come funziona la dottrina aristotelica della causa? cosa è la causa finalis? Che succede quando si applica questa logica alla volontà del legislatore e agli effetti della legge?
4 commenti:
Forse possiamo partire dalla concezione di causa dei primi glossatori i quali, per ritenere un’obbligazione valida, dovevano riscontrare in essa la sussistenza di una causa civilis – tipica, in quanto prevista dallo ius civile - e di una causa naturalis – conforme cioè all’equitas.
Emerge da qui una concezione estremamente statica del pensare il diritto, legato a delle cause preesistenti, precostituite, tipiche appunto.
Aristotele e la sua dottrina delle quattro cause – esposta nella fisica – permette divedere il problema da un punto di vista diverso: non si può presumere di conoscere qualcosa prima di averne colto il perché. Questo principio si applica ai fenomeni naturali quanto all’agire umano, del quale in particolare rilevano la causa efficiente e soprattutto la causa finale, introdotta nel linguaggio giuridico da Giovanni Bassiano: per il giurista allievo di Bulgaro la causa finalis è il movente della volontà negoziale; i glossatori successivi perfezioneranno poi la definizione come lo scopo previsto in astratto dal diritto, distinto dai motivi individuali. Comincia dunque ad essere essenziale l’elemento della volontà, dei privati ma anche del legislatore. Estendere questa concezione alla legge significa capirne l’utilità pubblica che ha spinto ad emanarla, il principio di giustizia che persegue: si delinea così il concetto di ratio legis, che da questo momento in poi rappresenterà l’anima della legge. Individuare una ratio significa anche poterla estendere ed applicare a fattispecie simili: ed ecco che le glosse, fatte per indagare le parole della legge, non bastano più e il nuovo ruolo attivo del giurista si manifesterà nel nuovo genere del commento.
Gentile professore, invece di scrivere un commento in risposta alle sue domande farò a mia volta una domanda, infatti nel tentativo di capire il concetto di causa aristotelica e le sue implicazioni nel diritto pubblico mi è venuto un dubbio: se le cause aristoteliche in ambito privatistico indicano la persona che compie l’atto giuridico e lo scopo a cui egli tende, nel diritto pubblico la causa efficiente e quella finale dovrebbero essere rispettivamente il legislatore e la ratio. A questo punto si potrebbe provare a fare il seguente ragionamento: se il legislatore è quel soggetto che pone in essere le leggi, vuol dire che gli sono stati conferiti i poteri di dare una forma ad un principio di giustizia, quindi alla ratio legis. Ma il legislatore non è un soggetto fisico, è qualcosa di astratto, è la legge personificata e di conseguenza mi sembra che il legislatore sia lo strumento attraverso cui il principio di giustizia di cui l’ordinamento ha bisogno (auto)assume una forma ed entra nell’ordinamento nella veste di norma.
Mi chiedevo se questo mio ragionamento fosse corretto. Grazie per l’attenzione.
Mi scusi Paola, non avevo visto l sua domanda.
C'è qualche inesattezza terminologica nel suo discorso: la causa efficiente non si può identificare con il legislatore: è piuttosto la situazione di fatto che richiede una nuova norma e induce il legislatore ad agire.
Anche l'idea che il legislatore sia astratto è inesatta per il Medioevo: il principe ha due corpi, uno concreta e l'altro astratto, e la sua sovranità si trova al di fuori, al di sopra del diritto. Dopo aver parlato dell'assolutismo e della plenitudo potestatis queto concetto dovrebbe esserle più chiaro.
E' giusto quello che scrive alla fine: questa pienezza del potere che sta sopra al diritto consente alla volontà del Principe di dare forma giuridica all'equità, cioè al principio di giustizia che risiede nelle cose stesse e che il legislatore può costituire in diritto.
Suppongo che quanto detto dalla coleega Valeria sia corretto, in breve la riscoperta dei testi aristotelici portò i glossatori a considerare il diritto in una nuova luce, da una concezione statica, fondata sulla causa civile e naturale si passa ad una concezione dinamica che vede come protagonista la causa efficiente e la causa finale. Appunto questo nuovo concetto di causa finalis, elaborato per la prima volta da G.Bassiano, si concentrò dapprima in ambito privatistico, ricoprendo il ruolo di punto di partenza della volontà negoziale per poi estendersi in ambito pubblicistico divenendo campo d'indagine per ricercare la volontà del legislatore, quella ratio legis nascosta dietro le norme che aprirà successimante la strada dell'applicazione analogica sviluppata dai commentatori.
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