venerdì 25 novembre 2016

Lunedì venire a sentire la presentazione alle 16,00!

Si parla di processo medievale, di diavoli e madonne, del diritto nella letteratura e della letteratura nel diritto. Presentano due vostri professori, Carlo Fantappié e Antonio Carratta, un professore di Parigi, Paolo Napoli, e una professoressa della Sapienza, Antonia Fiori.

giovedì 24 novembre 2016

Quinta domanda

La risposta deve essere inviata entro le 15,00 (meglio alcuni minuti prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it
Ricordate di indicare nome, cognome e numero di matricola.

Ricordate anche che non potete copiare né da libri, né da internet, né dagli appunti delle lezioni che trovate sul blog.

Ecco la domanda:

Nel diritto comune maturo si affermano alcuni principi giuridici destinati a determinare gli assetti dei diritti occidentali in età moderna e contemporanea.
Descrivete alcuni di questi principi scegliendo un solo àmbito fra quelli descritti a lezione (diritto privato; processo penale; sovranità e suoi limiti; amministrazione).

Lezione del 23 novembre 2016

La maturità giuridica della scienza di fine trecento non può ridursi all’identificazione di essa con la semplice ripresa del diritto romano giustinianeo.
Lo abbiamo visto nella lezione precedente facendo riferimento al diritto privato, ma la natura composita dell’età del ius commune è ravvisabile in molti altri aspetti della vita del diritto, in cui le contingenze sociali e storiche tipicamente medievali apportarono profonde modificazioni all’apparato giuridico classico.
Un altro esempio è il diritto penale: questo assunse caratteri nuovi rispetto alla tradizione alto medievale. La principale novità consistette nella trasformazione della forma del processo che da accusatorio divenne inquisitorio. Nella nuova procedura l’onere della prova della colpevolezza del sospettato, si spostava dall’offeso al magistrato, che molto spesso era la stessa persona a cui spettava il compito di giudicarlo. Il processo inquisitorio, nato per esigenze di repressione delle minacce all’ordine pubblico, ricalcava l’antica procedura prevista per il crimen laesae maiestatis che nel diritto romano, tuttavia, era una procedura speciale in quanto peggiorativa delle garanzie date al reo. Essa, infatti, includeva una serie di strumenti di ricerca delle prove che, appunto perché “speciali”, esulavano dalla normale procedura posta a salvaguardia anche della posizione del reo. Tra questi strumenti di prova vi era anche la tortura, volta ad estirpare la confessione del sospettato che di fatto anticipava il momento punitivo alla fase precedente alla statuizione sulla colpevolezza o meno.
Il più noto processo inquisitorio fu quello attuato dalla chiesa contro le eresie, tuttavia diversi furono gli ambienti in cui esso si applicò. Gli statuti comunali, ad esempio, si concentrarono molto sul tema della legge penale, anche a causa della difficile situazione politica al loro interno caratterizzata da momenti di aspro scontro tra fazioni. Tali scontri, così come le eresie cd “sociali”, minacciavano fortemente il bene di vita pubblico della pace sociale.  Poiché quello che veniva leso era un interesse pubblico era necessaria una procedura nuova che andasse oltre lo schema offeso-accusato. Fu proprio per tale motivo che, giuridicamente, venne concepita la tecnica del passaggio della responsabilità di agire penalmente dall’offeso al magistrato. Si procedette mediante un elemento già noto al mondo romano: la fama. Il sospettato per pubblica fama diveniva oggetto di indagine da parte del magistrato poiché era stata proprio “la sua fama” ad averlo accusato, ad aver portato alla cognizione del magistrato la notitia criminis. Tale applicazione è ben spiegata da Alberto Gandino nel suo Trattato de Maleficiis, Le stesse caratteristiche inquisitorie vennero assunte all’interno dei regni: qui la questione dell’iniziativa penale fu posta al centro delle loro politiche di autonomia, come fu in Inghilterra per il tentativo di applicare la legge penale laica anche ai chierici. Altro elemento portante del processo inquisitorio mutuato dalla procedura di lesa maestà fu quello della confisca dei beni del condannato, pena funzionale agli introiti della corona che fu largamente inflitta anche ai templari processati nel 1307 da Filippo il bello di Francia.
Sul campo del diritto pubblico si cominciò a porre il problema del bilanciamento tra l’absolutio da qualsiasi legge del legislatore e dei limiti postigli dall’ordinamento stesso. La questione riguardava in sostanza la qualificazione della sovranità del re all’interno del proprio regno: quali erano i suoi poteri e fino a dove poteva spingersi? Il problema venne molto sentito in Sicilia, e già nei primi commenti al Liber Augustalis si ritrova la formula espressiva della sovranità medievale “rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator”. Il rapporto tra sovrano e ordinamento non era di facile soluzione a livello giuridico – se non addirittura impossibile. Il limite della sovranità, nel medioevo, venne, perciò, ricercato al di fuori del diritto ed in particolare nella morale ed in Dio: era Dio che puniva il sovrano che aveva oltrepassato i propri limiti.
La società medievale si affacciava sempre più verso il moderno, gestita da logiche del diritto raffinate ed amministrata da un’ampia classe di giuristi che ne avevano appreso le tecniche interpretative e che ora popolavano non solo i ranghi della magistratura ma anche quelli delle amministrazioni statali. All’interno di questo nuovo ceto di tecnici del diritto venne ben presto introdotto un elemento di novità sul piano culturale consistente nelle suggestioni di rinnovamento nutrite del fascino per l’antichità. La critica dell’attualità veniva allora effettuata mediante una rievocazione del mondo passato. Tale idea è alla base del cd Umanesimo giuridico che vide l’irruzione di questo amore per l’antico nel panorama consolidato delle fonti del diritto romano così come inserite e studiate nell’ambito del ius commune. Si riscoprì, perciò, una cura nella ricostruzione del testo antico originario, coadiuvata dalla filologia. Questa consentiva al letterato di identificare, attraverso lo studio della lingua, l’epoca in cui il testo era stato scritto e quindi l’autenticità o meno di esso. Uno dei più famosi filologi del quattrocento fu Lorenzo Valla che operò, criticandolo, sul testo del Digesto nella versione della Vulgata individuandone tutte le cd “varianti”, gli errori di copiatura che non solo erano molto frequenti ma, a volte, risultavano determinanti.

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La critica filologica del Digesto fu resa possibile grazie anche al suo confronto con il manoscritto di epoca giustinianea conservato a Pisa e fatto oggetto di bottino una volta che la città venne conquistata dalla stirpe medicea: le Pandette Fiorentine. L’inizio della critica filologica, dettato dall’amore per l’antico risultò, tuttavia, essere distruttivo dell’impalcatura logica e concettuale su di essa costruita dalla vecchia scienza giuridica. Essa fu, pertanto, fortemente osteggiata dalle università italiane e molti dei giuristi ed intellettuali che si dedicarono alla nuova “scienza filologica” dovettero trasferirsi, fondando una nuova scuola a Bourges. Si contrapposero così due nuovi approcci al diritto: quello di vecchio stampo universitario che prese il nome di Mos Italicus, e quello caratterizzato dallo spirito di critica filologica del testo di legge, conosciuto come Mos Gallicus.
A cura di Chiara Casuccio

mercoledì 23 novembre 2016

Lezione del 22 novembre 2016 CON VIDEO

Alla letteratura giuridica di stampo accursiano standardizzatasi nel sistema di copiatura noto come exemplar et pecia si affiancò progressivamente un altro genere di letteratura in cui, adottando il modello delle quaestiones, il contatto tra la pratica e la dottrina divenne prevalente. Il modello del testo giuridico si spostò fino a rispondere a regole sistematiche differenti: le opere venivano organizzate sviluppando le problematiche che il caso concreto “attraeva a sé”; grazie al metodo casistico si riusciva, così, a mobilizzare la forza del testo normativo per applicarla anche a fattispecie concrete non previste dalla norma stessa ma alle quali si applicava la stessa ratio. Ne derivò il successo di raccolte di questiones coerenti per argomento, che assunsero il nome di Tractatus.
Probabilmente influenzato dalla scolastica filosofica medievale, si amplificò, quindi, l’uso della quaestio. La scienza medievale tout court, prima teologica e poi anche giuridica, vantava un metodo improntato all’applicazione della razionalità della regola generale ai problemi pratici che di volta in volta sorgevano, mediante la ricerca dei motivi che avevano mosso il legislatore a promulgare una determinata norma e la loro applicazione, in via analogica, a fattispecie non previste ma rispondenti alla medesima logica. A Orléans nacque una scuola che sviluppò un metodo nuovo, poi denominato dalla storiografia giuridica come “commento”, che riprese le logiche, tipicamente filosofiche, di conoscenza mediante l’indagine sulle cause aristoteliche e le applicò allo studio del testo legislativo. La “scuola del commento” deriva il proprio nome dalla forma che assunsero i testi da essa prodotti, che erano letture del testo normativo scritte in volumi separati rispetto ad esso, e dunque libere di ampliare il commento senta i limiti di spazio imposti alle glosse. Tuttavia, la principale caratteristica di questo nuovo insegnamento si riscontra nel diverso atteggiamento con cui il giurista si accostava al diritto: egli era pienamente consapevole dell’entità della forza della norma giuridica, tale da poter essere applicata ad un numero indefinito di fattispecie rispetto a quella base prevista dal testo, grazie all’appena menzionato metodo analogico.
In particolare, i “commentatori” riservarono particolare riguardo al problema della vincolatività della norma giuridica la quale traeva il suo potere di coercizione dalla qualificazione formale di essere stata emanata dal legislatore. In altre parole, ciò che faceva di un testo qualunque una norma era l’esser stato prodotto dalla volontà del legislatore. La loro indagine, dunque, si incentrò proprio sull’elemento della volontà che, quanto fatto umano, ben si prestò ad essere sottoposto all’analisi-per-cause disegnata dalla dottrina aristotelica della conoscenza degli atti umani, il cui studio in epoca basso medievale venne filtrato dai testi di Boezio che la riprendevano. I principali strumenti di conoscenza della volontà del legislatore e, dunque delle rationes legis, divennero la causa efficiente e la causa finale.
Il principale dei commentatori di scuola francese, Jacques de Révigny (attivo tra 1260 e 1280), applicò l’idea della causa finale alla legislazione al fine di ricercare lo scopo che aveva spinto il legislatore alla promulgazione di una data norma. Si assiste ad un ribaltamento di prospettiva rispetto all’atteggiamento degli antichi compilatori del passato, i quali non si fecero scrupoli a falsificare i testi per inserire nelle loro opere una regola colma di veritas ma difettante di auctoritas. I nuovi giuristi che consideravano la vincolatività della norma derivante dalla sua qualificazione formale, si concentrarono ad analizzare il significato di ogni regola del testo legislativo, anche di quelle apparentemente insensate, sul presupposto che ognuna di esse fosse stata emanata da chi deteneva il potere legislativo in vista di un determinato scopo ed effetto: il loro compito era, dunque, di individuarlo per estrarre dalla norma la “giustizia intrinseca” di cui era portatrice ed applicarla a tutta la gamma di fattispecie che la condividevano con essa.
Il nuovo metodo raggiunse molto successo, dapprima in Francia e poi anche in Italia, soprattutto a Perugia. I principali esponenti della scuola italiana del commento furono:
-       Cino da Pistoia. Giurista e poeta, molto influenzato dall’allievo di Jacques de Révigny, Pierre de Belleperche. 
-       Bartolo da Sassoferrato. La cui fama fu così elevata che lo portò, nei secoli successivi, a fungere da discrimen in caso di controversie tra i giuristi discordanti. Tra i molti lavori, degno di menzione è il suo Tractatus de Tyranno.
-       Baldo degli Ubaldi o Baldeschi. Pur essendo un civilista, cominciò una lettura del Liber extra. Compose, inoltre, un commento ai Libri Feudorum ed effettuò una serie di additiones allo Speculum Iudiciale di Durante.

La grande rinascita del diritto romano aveva provocato, con un certo ritardo la nascita del diritto canonico il quale non era più “lex” ma “ius”, un sistema, cioè, coordinato e più o meno completo di norme. I due sistemi, quello romano e quello canonico, poi, si influenzarono vicendevolmente nell’età del Ius Commune. Soprattutto nel campo del diritto privato, questa influenza reciproca provocò profonde modificazioni agli istituti classici di diritto giustinianeo. Tali modificazioni erano dettate dalla necessità di adattamento alla nuova società e realtà medievali e gettarono le basi per molti istituti del diritto borghese moderno. Cerchiamo di vederne un paio:
1. Teoria della personalità giuridica. Nel mondo medievale, l’accumulo di grandi quantità di ricchezza in capo ad enti ecclesiastici indusse i giuristi a chiedersi se fosse possibile configurare un soggetto titolare di diritti diverso dalla persona fisica, unico soggetto giuridico del mondo romano. Circa un secolo prima della formulazione della teoria definitiva ad opera di papa Innocenzo IV, fu l’arcivescovo Mosè di Ravenna che formulò in termini giuridici la regola da sempre adottata dalla Chiesa. Egli, nel porsi il problema di che fine avrebbero fatto i beni di un monastero rimasto abbandonato da tutti i monaci, prospettò tre soluzioni differenti, le quali corrispondevano a tre modi diversi di concepire la proprietà ecclesiastica: proprietà ecclesiastica come dote, che una volta “morto” il “marito”  (= una volta che tutti i monaci avevano lasciato il monastero), ritornava all’antico donante; proprietà ecclesiastica come appartenente alle persone fisiche dei monaci, che in caso di morte di tutti loro, sarebbe stata incorporata nel fisco papale in quanto res nullius; proprietà dei beni in capo alle mura dell’ente, rectius, al luogo sacro su cui il monastero era stato costruito. Tale teoria, abbracciata dallo stesso Mosè, venne duramente criticata dai glossatori civilisti, in ragione della mancanza, nel soggetto-edificio, di un’anima capace di fargli esprimere un valido animus possidendi necessario al possesso dei beni da un lato, ed una valida volontà necessaria agli atti dispositivi di essi, dall’altro. Questo avrebbe provocato una cristallizazione della ricchezza. La soluzione venne trovata, come accennato, da papa Innocenzo IV che formulò per la prima volta la teoria della persona ficta. Una finzione, tipico strumento di diritto romano, avrebbe permesso al monastero di disporre dei propri beni permettendogli di esprimere la propria volontà mediante un meccanismo di votazione dei monaci che lo abitavano.
2. Evoluzione dell’istituto dell’investitura-gewere. L’ambito in cui, in particolare, trovò posto l’investitura nell’epoca del diritto comune, fu il possesso. Il concetto romano di fatto che rispecchia un diritto reale, venne modificato fino ad essere trasformato in una forma evoluta di investitura, con la conseguenza che si sarebbero potute possedere non solo cose materiali, ma anche diritti di credito o funzioni giurisdizionali. Il principale effetto di una tale rivoluzione consiste nel ribaltamento dell’onere della prova per qualsiasi tipo di diritto e/o prerogativa: chi appariva titolare del diritto in quanto lo esercitava di fatto non avrebbe dovuto provare alcunché, spettando la prova della diversa titolarità di esso in capo a chi si asseriva il vero titolare. La probatio della proprietà, tuttavia, si rivelava il più delle volte diabolica per cui il risultato di ciò fu una sempre più stabilizzazione dei rapporti sociali. La deformazione del possesso contribuì a mutare il panorama dei diritti privati, che si trovò a divergere fortemente dal diritto privato romano. Le posizioni creditorie vennero perciò configurate alla stessa stregua di cose rendendosi più facile la loro circolazione.

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A cura di Chiara Casuccio

Cosa vi fa pensare questo sonetto di Cino da Pistoia?

A che, Roma superba, tante leggi
Di senator, di plebe, e degli scritti
Di prudenti di placiti e di editti,
Se ’l mondo come pria più non correggi?

Leggi, misera te!, misera, leggi
Gli antichi fatti de’ tuo’ figli invitti,
Che ti fêr già mill’Affriche et Egitti
Reggere; et or sei retta, e nulla reggi.

Che ti giova ora aver gli altrui paesi
Domato e posto ’l freno a genti strane,
S’oggi con teco ogni tua gloria è morta?

Mercè, Dio! chè miei giorni ho male spesi
In trattar leggi, tutte ingiuste e vane
Senza la tua che scritta in cor si porta.

martedì 22 novembre 2016

Lunedì 28 discussione su un libro


lezione del 21 novembre 2016

Grazie al lavoro delle due scuole, nel XIII secolo si affiancarono due complessi legislativi che operavano all’interno del sistema dell’utrumque ius: il Corpus Juris Civilis ed il Corpus Juris Canonici, una raccolta solo lato sensu normativa, poiché il Decretum era stato trasformato in una sorta di Codice artificialmente dalla scuola, che aveva bisogno di un testo stabile su cui elaborare il sistema di congiunzioni di norme su cui si basava il metodo dialettico.
La scienza canonistica, poi, a partire dalla lettura del proprio Corpus, promosse l’integrazione di questo con i principi di diritto romano: gli strumenti intellettuali elaborati grazie all’approfondimento del diritto romano giustinianeo, infatti, rimanevano validi ed utili per tutti i giuristi, sia civilisti che canonisti. Nell’ambito di questa integrazione, tuttavia, la logica classica venne toccata fino a rimodularsi sulla base di quella cristiana e tipicamente medievale. Il canonista che realizzò a pieno questa integrazione fu Enrico da Susa, l’Ostiense.
Il Cardinale Ostiense fu anche uno dei principali fautori delle dottrine ierocratiche. Tali dottrine postulavano l’idea che il potere fosse stato conferito da Cristo, che in quanto Dio in terra ne era l’unico depositario, interamente al proprio vicario, il papa, ed era questi che, per delega, ne avrebbe potuto conferire parte all’imperatore. Esse si incrementarono nel corso del duecento, in concomitanza con i noti avvenimenti storici di duro conflitto tra papato ed il casato di Svevia, e raggiunsero la loro formulazione più compiuta con Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, papa e giurista.
Bonifacio si rese autore di un codice, il Liber Sextus, la cui particolarità – a parte il nome-  risiede in ciò: accanto alle classiche decretali, cioè la parte generale ed astratta di una legislazione nata in ambito “casistico”, il papa vi inserì una serie di costituzioni, di norme, scritte e promulgate per il codice stesso. Da buon giurista, papa Caetani si preoccupò, così, di dare soluzione a materie che erano notoriamente oggetto di controversia tra i giuristi. Egli, inoltre, confermando la ricordata tendenza all’integrazione, chiese ad un professore di diritto civile, Dino del Mugello, di redigere il titolo De regulis juris per la costruzione di regole generali che potessero reggere il sistema del diritto canonico.
Proprio nel momento in cui le dottrine ierocratiche sembravano aver trovato conferma nelle vicende storiche di fine ‘200 e l’Europa tutta subiva il controllo del potere pontificio, si assistette alla tanto inaspettata quanto ingloriosa fine del sogno universalista della Chiesa. Il vero pericolo dell’universalismo pontificio, tuttavia, non si rivelò essere l’impero ma la suddivisione dell’Europa in regni, antichi alleati della sede romana. Si dice che fu proprio il re di uno di questi regni, Filippo di Francia detto il Bello, a determinare la fine del pontificato di Bonifacio VIII, il quale morì nel 1303, un anno dopo l’episodio noto come “schiaffo di Anagni”.
Bonifacio VIII fu l’ultimo papa a rappresentare la centralità e l’indipendenza della sede pontificia. Dopo questa rottura, infatti, lo spostamento ad Avignone della sede di Roma, che da sempre era sfuggita alle logiche di appropriazione da parte di poteri esterni, determinò il controllo diretto di essa da parte del regno di Francia. Il periodo di “cattività” durò dal 1309 al 1377 e si concluse con il grande scisma d’occidente, a cui pose fine definitiva il Concilio di Costanza 1414-1418.
Dal punto di vista giuridico, tuttavia, il periodo Avignonese fu una fucina di elaborazioni che toccarono temi di diritto, poi trasposte anche negli ordinamenti laici.
Una delle problematiche centrali fu quella riguardante la cd plenitudo potestatis. L’indagine si incentrò sui relativi limiti del diritto, inteso come complesso di norme in cui viene inserita la norma nuova, e della facoltà del legislatore di derogare a tale ordinamento.
Altra innovazione di questo periodo fu il riordinamento del Tribunale supremo della Chiesa. La costituzione Ratio Juris del 1331 fornì il tribunale della Sacra Rota di una nuova procedura e regolamentazione. Due furono le principali novità: la costituzione di un collegio giudicante i cui componenti venivano scelti tra giuristi di chiara fama e la procedura di decisione che prevedeva la delega del caso ad un magistrato referente il quale studiava la fattispecie, e la riferiva al collegio che doveva, a sua volta, approvarne la risoluzione. Il risultato fu l’elaborazione di sentenze particolarmente motivate in fatto e in diritto; questo rendeva più facilmente rintracciabili le rationes poste alla base della decisione, rispetto ad un passato in cui l’attività di motivazione giuridica della sentenza rimaneva esterna al giudizio, dovendosi ricercare nel consilium sapientis iudiciale dato al giudice-delegato della regalia sovrana da un giurista appositamente consultato.
L’esempio della chiesa fu seguito anche dai regni laici i quali si dotarono di Tribunali centrali sul modello di quello della Sacra Rota.
Il più famoso canonista del XIV secolo è Giovanni d’Andrea le cui opere rappresentano il punto di riferimento di tutte le dottrine dell’epoca. Una dei suoi lavori principali è il commentario all’opera di Guillaume Durand, Speculum Iudiciale. Questo era una raccolta in quattro libri di tutte le fattispecie che si potevano incontrare in ambito processuale, sia di diritto civile che di diritto canonico. Il francese, nello spiegare, per ogni fattispecie, che tipo di azione esperire e le linee sostanziali degli istituti coinvolti, aveva operato riportando pezzi di opere di giuristi a lui precedenti; Giovanni d’Andrea si preoccupò di identificare la paternità di ogni stralcio riportato.

Il Concilio di Costanza aveva, inoltre, introdotto tra le principali discussioni di diritto pubblico una nuova tematica: la questione della prevalenza del concilio sul papa – e la conseguente diversa concezione della derivazione del potere. Principale sostenitore della teoria conciliarista fu il canonista Francesco Zabarella.
A cura di Chiara Casuccio

domenica 20 novembre 2016