Si parla di processo medievale, di diavoli e madonne, del diritto nella letteratura e della letteratura nel diritto. Presentano due vostri professori, Carlo Fantappié e Antonio Carratta, un professore di Parigi, Paolo Napoli, e una professoressa della Sapienza, Antonia Fiori.
venerdì 25 novembre 2016
giovedì 24 novembre 2016
Quinta domanda
La risposta deve essere inviata entro le 15,00 (meglio alcuni minuti prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it
Ricordate di indicare nome, cognome e numero di matricola.
Ricordate anche che non potete copiare né da libri, né da internet, né dagli appunti delle lezioni che trovate sul blog.
Ecco la domanda:
Nel diritto comune maturo si affermano alcuni principi giuridici destinati a determinare gli assetti dei diritti occidentali in età moderna e contemporanea.
Descrivete alcuni di questi principi scegliendo un solo àmbito fra quelli descritti a lezione (diritto privato; processo penale; sovranità e suoi limiti; amministrazione).
storiadiritto.conte@uniroma3.it
Ricordate di indicare nome, cognome e numero di matricola.
Ricordate anche che non potete copiare né da libri, né da internet, né dagli appunti delle lezioni che trovate sul blog.
Ecco la domanda:
Nel diritto comune maturo si affermano alcuni principi giuridici destinati a determinare gli assetti dei diritti occidentali in età moderna e contemporanea.
Descrivete alcuni di questi principi scegliendo un solo àmbito fra quelli descritti a lezione (diritto privato; processo penale; sovranità e suoi limiti; amministrazione).
Lezione del 23 novembre 2016
La maturità giuridica della scienza di fine trecento non può ridursi
all’identificazione di essa con la semplice ripresa del diritto romano
giustinianeo.
Lo abbiamo visto nella lezione precedente facendo riferimento al diritto
privato, ma la natura composita dell’età del ius commune è ravvisabile in molti altri aspetti della vita del
diritto, in cui le contingenze sociali e storiche tipicamente medievali apportarono
profonde modificazioni all’apparato giuridico classico.
Un altro esempio è il diritto penale:
questo assunse caratteri nuovi rispetto alla tradizione alto medievale. La
principale novità consistette nella trasformazione della forma del processo che
da accusatorio divenne inquisitorio.
Nella nuova procedura l’onere della prova della colpevolezza del sospettato, si
spostava dall’offeso al magistrato, che molto spesso era la stessa persona a
cui spettava il compito di giudicarlo. Il processo inquisitorio, nato per
esigenze di repressione delle minacce all’ordine pubblico, ricalcava l’antica
procedura prevista per il crimen laesae
maiestatis che nel diritto romano, tuttavia, era una procedura speciale in
quanto peggiorativa delle garanzie date al reo. Essa, infatti, includeva una
serie di strumenti di ricerca delle prove che, appunto perché “speciali”,
esulavano dalla normale procedura posta a salvaguardia anche della posizione
del reo. Tra questi strumenti di prova vi era anche la tortura, volta ad estirpare la confessione del sospettato che di
fatto anticipava il momento punitivo alla fase precedente alla statuizione
sulla colpevolezza o meno.
Il più noto processo inquisitorio fu quello attuato dalla chiesa contro le
eresie, tuttavia diversi furono gli ambienti in cui esso si applicò. Gli
statuti comunali, ad esempio, si concentrarono molto sul tema della legge
penale, anche a causa della difficile situazione politica al loro interno
caratterizzata da momenti di aspro scontro tra fazioni. Tali scontri, così come
le eresie cd “sociali”, minacciavano fortemente il bene di vita pubblico della
pace sociale. Poiché quello che veniva
leso era un interesse pubblico era necessaria una procedura nuova che andasse
oltre lo schema offeso-accusato. Fu proprio per tale motivo che,
giuridicamente, venne concepita la tecnica del passaggio della responsabilità
di agire penalmente dall’offeso al magistrato. Si procedette mediante un
elemento già noto al mondo romano: la fama.
Il sospettato per pubblica fama diveniva oggetto di indagine da parte del
magistrato poiché era stata proprio “la sua fama” ad averlo accusato, ad aver
portato alla cognizione del magistrato la notitia
criminis. Tale applicazione è ben spiegata da Alberto Gandino nel suo Trattato de Maleficiis, Le stesse
caratteristiche inquisitorie vennero assunte all’interno dei regni: qui la
questione dell’iniziativa penale fu posta al centro delle loro politiche di
autonomia, come fu in Inghilterra per il tentativo di applicare la legge penale
laica anche ai chierici. Altro elemento portante del processo inquisitorio
mutuato dalla procedura di lesa maestà fu quello della confisca dei beni del condannato, pena funzionale agli introiti
della corona che fu largamente inflitta anche ai templari processati nel 1307
da Filippo il bello di Francia.
Sul campo del diritto pubblico
si cominciò a porre il problema del bilanciamento tra l’absolutio da qualsiasi legge del legislatore e dei limiti
postigli dall’ordinamento stesso. La questione riguardava in sostanza la qualificazione
della sovranità del re all’interno del proprio regno: quali erano i suoi poteri
e fino a dove poteva spingersi? Il problema venne molto sentito in Sicilia, e
già nei primi commenti al Liber Augustalis si ritrova la formula espressiva
della sovranità medievale “rex superiorem
non recognoscens in regno suo est imperator”. Il rapporto tra sovrano e
ordinamento non era di facile soluzione a livello giuridico – se non
addirittura impossibile. Il limite della sovranità, nel medioevo, venne,
perciò, ricercato al di fuori del diritto ed in particolare nella morale ed in
Dio: era Dio che puniva il sovrano che aveva oltrepassato i propri limiti.
La società medievale si affacciava sempre più verso il moderno, gestita da
logiche del diritto raffinate ed amministrata da un’ampia classe di giuristi
che ne avevano appreso le tecniche interpretative e che ora popolavano non solo
i ranghi della magistratura ma anche quelli delle amministrazioni statali.
All’interno di questo nuovo ceto di tecnici del diritto venne ben presto
introdotto un elemento di novità sul piano culturale consistente nelle
suggestioni di rinnovamento nutrite del fascino per l’antichità. La critica
dell’attualità veniva allora effettuata mediante una rievocazione del mondo
passato. Tale idea è alla base del cd Umanesimo
giuridico che vide l’irruzione di questo amore per l’antico nel panorama
consolidato delle fonti del diritto romano così come inserite e studiate
nell’ambito del ius commune. Si
riscoprì, perciò, una cura nella ricostruzione del testo antico originario,
coadiuvata dalla filologia. Questa
consentiva al letterato di identificare, attraverso lo studio della lingua,
l’epoca in cui il testo era stato scritto e quindi l’autenticità o meno di
esso. Uno dei più famosi filologi del quattrocento fu Lorenzo Valla che operò,
criticandolo, sul testo del Digesto nella versione della Vulgata individuandone
tutte le cd “varianti”, gli errori
di copiatura che non solo erano molto frequenti ma, a volte, risultavano
determinanti.
-->
La critica filologica del Digesto fu resa possibile grazie anche al suo
confronto con il manoscritto di epoca giustinianea conservato a Pisa e fatto
oggetto di bottino una volta che la città venne conquistata dalla stirpe
medicea: le Pandette Fiorentine.
L’inizio della critica filologica, dettato dall’amore per l’antico risultò,
tuttavia, essere distruttivo dell’impalcatura logica e concettuale su di essa
costruita dalla vecchia scienza giuridica. Essa fu, pertanto, fortemente
osteggiata dalle università italiane e molti dei giuristi ed intellettuali che
si dedicarono alla nuova “scienza filologica” dovettero trasferirsi, fondando
una nuova scuola a Bourges. Si contrapposero così due nuovi approcci al
diritto: quello di vecchio stampo universitario che prese il nome di Mos Italicus, e quello caratterizzato
dallo spirito di critica filologica del testo di legge, conosciuto come Mos Gallicus.
A cura di Chiara Casuccio
A cura di Chiara Casuccio
mercoledì 23 novembre 2016
Lezione del 22 novembre 2016 CON VIDEO
Alla letteratura giuridica di stampo accursiano standardizzatasi nel
sistema di copiatura noto come exemplar
et pecia si affiancò progressivamente un altro genere di letteratura in
cui, adottando il modello delle quaestiones, il contatto tra la pratica e la dottrina divenne prevalente. Il
modello del testo giuridico si spostò fino a rispondere a regole sistematiche
differenti: le opere venivano organizzate sviluppando le problematiche che il
caso concreto “attraeva a sé”; grazie al metodo casistico si riusciva, così, a
mobilizzare la forza del testo normativo per applicarla anche a fattispecie
concrete non previste dalla norma stessa ma alle quali si applicava la stessa ratio. Ne derivò il successo di raccolte
di questiones coerenti per argomento,
che assunsero il nome di Tractatus.
Probabilmente influenzato dalla scolastica filosofica medievale, si
amplificò, quindi, l’uso della quaestio. La scienza medievale tout court, prima teologica e poi anche
giuridica, vantava un metodo improntato all’applicazione della razionalità
della regola generale ai problemi pratici che di volta in volta sorgevano,
mediante la ricerca dei motivi che avevano mosso il legislatore a promulgare
una determinata norma e la loro applicazione, in via analogica, a fattispecie
non previste ma rispondenti alla medesima logica. A Orléans nacque una scuola che sviluppò un metodo nuovo, poi
denominato dalla storiografia giuridica come “commento”, che riprese le logiche, tipicamente filosofiche, di
conoscenza mediante l’indagine sulle cause aristoteliche e le applicò allo
studio del testo legislativo. La “scuola del commento” deriva il proprio nome
dalla forma che assunsero i testi da essa prodotti, che erano letture del testo
normativo scritte in volumi separati rispetto ad esso, e dunque libere di
ampliare il commento senta i limiti di spazio imposti alle glosse. Tuttavia, la
principale caratteristica di questo nuovo insegnamento si riscontra nel diverso
atteggiamento con cui il giurista si accostava al diritto: egli era pienamente
consapevole dell’entità della forza della norma giuridica, tale da poter essere
applicata ad un numero indefinito di fattispecie rispetto a quella base
prevista dal testo, grazie all’appena menzionato metodo analogico.
In particolare, i “commentatori” riservarono particolare riguardo al
problema della vincolatività della norma giuridica la quale traeva il suo
potere di coercizione dalla qualificazione formale di essere stata emanata dal
legislatore. In altre parole, ciò che faceva di un testo qualunque una norma
era l’esser stato prodotto dalla volontà del legislatore. La loro indagine,
dunque, si incentrò proprio sull’elemento della volontà che, quanto fatto
umano, ben si prestò ad essere sottoposto all’analisi-per-cause disegnata dalla
dottrina aristotelica della conoscenza degli atti umani, il cui studio in epoca
basso medievale venne filtrato dai testi di Boezio che la riprendevano. I
principali strumenti di conoscenza della volontà del legislatore e, dunque
delle rationes legis, divennero la causa efficiente e la causa
finale.
Il principale dei commentatori di scuola francese, Jacques de Révigny (attivo tra 1260 e 1280), applicò l’idea
della causa finale alla legislazione al fine di ricercare lo scopo che aveva
spinto il legislatore alla promulgazione di una data norma. Si assiste ad un
ribaltamento di prospettiva rispetto all’atteggiamento degli antichi
compilatori del passato, i quali non si fecero scrupoli a falsificare i testi
per inserire nelle loro opere una regola colma di veritas ma difettante di auctoritas.
I nuovi giuristi che consideravano la vincolatività della norma derivante dalla
sua qualificazione formale, si concentrarono ad analizzare il significato di
ogni regola del testo legislativo, anche di quelle apparentemente insensate,
sul presupposto che ognuna di esse fosse stata emanata da chi deteneva il
potere legislativo in vista di un determinato scopo ed effetto: il loro compito
era, dunque, di individuarlo per estrarre dalla norma la “giustizia intrinseca” di cui era portatrice ed applicarla a tutta la
gamma di fattispecie che la condividevano con essa.
Il nuovo metodo raggiunse molto successo, dapprima in Francia e poi anche
in Italia, soprattutto a Perugia. I
principali esponenti della scuola italiana del commento furono:
-
Cino da Pistoia. Giurista e
poeta, molto influenzato dall’allievo di Jacques de Révigny, Pierre de Belleperche.
-
Bartolo da
Sassoferrato. La cui fama fu così elevata che lo portò, nei secoli
successivi, a fungere da discrimen in
caso di controversie tra i giuristi discordanti. Tra i molti lavori, degno di menzione è il suo Tractatus de Tyranno.
-
Baldo degli
Ubaldi o Baldeschi. Pur essendo un
civilista, cominciò una lettura del Liber extra. Compose, inoltre, un commento
ai Libri Feudorum ed effettuò una serie di additiones
allo Speculum Iudiciale di Durante.
La grande rinascita del diritto romano
aveva provocato, con un certo ritardo la nascita del diritto canonico il quale
non era più “lex” ma “ius”, un sistema, cioè, coordinato e più
o meno completo di norme. I due sistemi, quello romano e quello canonico, poi,
si influenzarono vicendevolmente nell’età del Ius Commune. Soprattutto nel campo del diritto privato, questa
influenza reciproca provocò profonde modificazioni agli istituti classici di
diritto giustinianeo. Tali modificazioni erano dettate dalla necessità di
adattamento alla nuova società e realtà medievali e gettarono le basi per molti
istituti del diritto borghese moderno. Cerchiamo di vederne un paio:
1. Teoria
della personalità giuridica. Nel mondo medievale, l’accumulo di grandi
quantità di ricchezza in capo ad enti ecclesiastici indusse i giuristi a
chiedersi se fosse possibile configurare un soggetto titolare di diritti
diverso dalla persona fisica, unico soggetto giuridico del mondo romano. Circa
un secolo prima della formulazione della teoria definitiva ad opera di papa
Innocenzo IV, fu l’arcivescovo Mosè di
Ravenna che formulò in termini giuridici la regola da sempre adottata dalla
Chiesa. Egli, nel porsi il problema di che fine avrebbero fatto i beni di un
monastero rimasto abbandonato da tutti i monaci, prospettò tre soluzioni
differenti, le quali corrispondevano a tre modi diversi di concepire la
proprietà ecclesiastica: proprietà ecclesiastica come dote, che una volta
“morto” il “marito” (= una volta che
tutti i monaci avevano lasciato il monastero), ritornava
all’antico donante; proprietà ecclesiastica come appartenente alle persone
fisiche dei monaci, che in caso di morte di tutti loro, sarebbe stata
incorporata nel fisco papale in quanto res
nullius; proprietà dei beni in capo alle mura dell’ente, rectius, al luogo sacro su cui il
monastero era stato costruito. Tale teoria, abbracciata dallo stesso Mosè,
venne duramente criticata dai glossatori civilisti, in ragione della mancanza,
nel soggetto-edificio, di un’anima capace di fargli esprimere un valido animus possidendi necessario al possesso
dei beni da un lato, ed una valida volontà necessaria agli atti dispositivi di
essi, dall’altro. Questo avrebbe provocato una cristallizazione della
ricchezza. La soluzione venne trovata, come accennato, da papa Innocenzo IV che
formulò per la prima volta la teoria
della persona ficta. Una finzione, tipico strumento di diritto romano,
avrebbe permesso al monastero di disporre dei propri beni permettendogli di
esprimere la propria volontà mediante un meccanismo di votazione dei monaci che
lo abitavano.
2. Evoluzione dell’istituto
dell’investitura-gewere. L’ambito in cui, in particolare, trovò posto
l’investitura nell’epoca del diritto comune, fu il possesso. Il concetto romano
di fatto che rispecchia un diritto reale, venne modificato fino ad essere
trasformato in una forma evoluta di investitura, con la conseguenza che si
sarebbero potute possedere non solo cose materiali, ma anche diritti di credito
o funzioni giurisdizionali. Il principale effetto di una tale rivoluzione
consiste nel ribaltamento dell’onere della prova per qualsiasi tipo di diritto
e/o prerogativa: chi appariva titolare del diritto in quanto lo esercitava di
fatto non avrebbe dovuto provare alcunché, spettando la prova della diversa
titolarità di esso in capo a chi si asseriva il vero titolare. La probatio della proprietà, tuttavia, si
rivelava il più delle volte diabolica
per cui il risultato di ciò fu una sempre più stabilizzazione dei rapporti
sociali. La deformazione del possesso contribuì a mutare il panorama dei
diritti privati, che si trovò a divergere fortemente dal diritto privato
romano. Le posizioni creditorie vennero perciò configurate alla stessa stregua
di cose rendendosi più facile la loro circolazione.
-->
A cura
di Chiara Casuccio
Cosa vi fa pensare questo sonetto di Cino da Pistoia?
A che, Roma superba, tante leggi
Di senator, di plebe, e degli scritti
Di prudenti di placiti e di editti,
Se ’l mondo come pria più non correggi?
Leggi, misera te!, misera, leggi
Gli antichi fatti de’ tuo’ figli invitti,
Che ti fêr già mill’Affriche et Egitti
Reggere; et or sei retta, e nulla reggi.
Che ti giova ora aver gli altrui paesi
Domato e posto ’l freno a genti strane,
S’oggi con teco ogni tua gloria è morta?
Mercè, Dio! chè miei giorni ho male spesi
In trattar leggi, tutte ingiuste e vane
Senza la tua che scritta in cor si porta.
martedì 22 novembre 2016
lezione del 21 novembre 2016
Grazie al lavoro delle due scuole, nel XIII secolo si affiancarono due
complessi legislativi che operavano all’interno del sistema dell’utrumque ius: il Corpus Juris Civilis ed il Corpus
Juris Canonici, una raccolta solo lato
sensu normativa, poiché il Decretum era stato trasformato in una sorta di
Codice artificialmente dalla scuola, che aveva bisogno di un testo stabile su
cui elaborare il sistema di congiunzioni di norme su cui si basava il metodo
dialettico.
La scienza canonistica, poi, a partire dalla lettura del proprio Corpus,
promosse l’integrazione di questo con i principi di diritto romano: gli
strumenti intellettuali elaborati grazie all’approfondimento del diritto romano
giustinianeo, infatti, rimanevano validi ed utili per tutti i giuristi, sia
civilisti che canonisti. Nell’ambito di questa integrazione, tuttavia, la
logica classica venne toccata fino a rimodularsi sulla base di quella cristiana
e tipicamente medievale. Il canonista che realizzò a pieno questa integrazione
fu Enrico da Susa, l’Ostiense.
Il Cardinale Ostiense fu anche uno dei principali fautori delle dottrine ierocratiche. Tali dottrine
postulavano l’idea che il potere fosse stato conferito da Cristo, che in quanto
Dio in terra ne era l’unico depositario, interamente al proprio vicario, il
papa, ed era questi che, per delega, ne avrebbe potuto conferire parte
all’imperatore. Esse si incrementarono nel corso del duecento, in concomitanza
con i noti avvenimenti storici di duro conflitto tra papato ed il casato di
Svevia, e raggiunsero la loro formulazione più compiuta con Bonifacio VIII, al secolo Benedetto
Caetani, papa e giurista.
Bonifacio si rese autore di un codice, il Liber Sextus, la cui particolarità – a parte il nome- risiede in ciò: accanto alle classiche
decretali, cioè la parte generale ed astratta di una legislazione nata in
ambito “casistico”, il papa vi inserì una serie di costituzioni, di norme,
scritte e promulgate per il codice stesso. Da buon giurista, papa Caetani si preoccupò,
così, di dare soluzione a materie che erano notoriamente oggetto di
controversia tra i giuristi. Egli, inoltre, confermando la ricordata tendenza
all’integrazione, chiese ad un professore di diritto civile, Dino del Mugello, di redigere il titolo De regulis juris per la costruzione di
regole generali che potessero reggere il sistema del diritto canonico.
Proprio nel momento in cui le dottrine ierocratiche sembravano aver trovato
conferma nelle vicende storiche di fine ‘200 e l’Europa tutta subiva il
controllo del potere pontificio, si assistette alla tanto inaspettata quanto
ingloriosa fine del sogno universalista della Chiesa. Il vero pericolo
dell’universalismo pontificio, tuttavia, non si rivelò essere l’impero ma la
suddivisione dell’Europa in regni, antichi alleati della sede romana. Si dice
che fu proprio il re di uno di questi regni, Filippo di Francia detto il Bello,
a determinare la fine del pontificato di Bonifacio VIII, il quale morì nel
1303, un anno dopo l’episodio noto come “schiaffo di Anagni”.
Bonifacio VIII fu l’ultimo papa a rappresentare la centralità e
l’indipendenza della sede pontificia. Dopo questa rottura, infatti, lo
spostamento ad Avignone della sede
di Roma, che da sempre era sfuggita alle logiche di appropriazione da parte di
poteri esterni, determinò il controllo diretto di essa da parte del regno di
Francia. Il periodo di “cattività” durò dal 1309 al 1377 e si concluse con il
grande scisma d’occidente, a cui
pose fine definitiva il Concilio di Costanza 1414-1418.
Dal punto di vista giuridico, tuttavia, il periodo Avignonese fu una fucina
di elaborazioni che toccarono temi di diritto, poi trasposte anche negli
ordinamenti laici.
Una delle problematiche centrali fu quella riguardante la cd plenitudo potestatis. L’indagine si
incentrò sui relativi limiti del diritto, inteso come complesso di norme in cui
viene inserita la norma nuova, e della facoltà del legislatore di derogare a
tale ordinamento.
Altra innovazione di questo periodo fu il riordinamento del Tribunale
supremo della Chiesa. La costituzione Ratio
Juris del 1331 fornì il tribunale della Sacra Rota di una nuova procedura e regolamentazione. Due furono le
principali novità: la costituzione di un collegio
giudicante i cui componenti venivano scelti tra giuristi di chiara fama e
la procedura di decisione che prevedeva la delega del caso ad un magistrato referente il quale studiava
la fattispecie, e la riferiva al collegio che doveva, a sua volta, approvarne
la risoluzione. Il risultato fu l’elaborazione di sentenze particolarmente motivate
in fatto e in diritto; questo rendeva più facilmente rintracciabili le rationes poste alla base della
decisione, rispetto ad un passato in cui l’attività di motivazione giuridica della
sentenza rimaneva esterna al giudizio, dovendosi ricercare nel consilium sapientis iudiciale dato al
giudice-delegato della regalia sovrana da un giurista appositamente consultato.
L’esempio della chiesa fu seguito anche dai regni laici i quali si dotarono
di Tribunali centrali sul modello di quello della Sacra Rota.
Il più famoso canonista del XIV secolo è Giovanni d’Andrea le cui opere rappresentano il punto di
riferimento di tutte le dottrine dell’epoca. Una dei suoi lavori principali è il
commentario all’opera di Guillaume Durand, Speculum
Iudiciale. Questo era una raccolta in quattro libri di tutte le fattispecie
che si potevano incontrare in ambito processuale, sia di diritto civile che di
diritto canonico. Il francese, nello spiegare, per ogni fattispecie, che tipo
di azione esperire e le linee sostanziali degli istituti coinvolti, aveva
operato riportando pezzi di opere di giuristi a lui precedenti; Giovanni
d’Andrea si preoccupò di identificare la paternità di ogni stralcio riportato.
Il Concilio di Costanza aveva, inoltre, introdotto tra le principali
discussioni di diritto pubblico una nuova tematica: la questione della
prevalenza del concilio sul papa – e la conseguente diversa concezione della
derivazione del potere. Principale sostenitore della teoria conciliarista fu il
canonista Francesco Zabarella.
A cura di Chiara Casuccio
domenica 20 novembre 2016
Iscriviti a:
Post (Atom)