sabato 17 dicembre 2016

Domande sulla storia del diritto

Questo post è dedicato a raccogliere le vostre domande sul programma d'esame. Qui si parla di storia del diritto; per le questioni pratiche usate l'altro post.

Domande relative alle modalità d'esame o ad altre questioni pratiche

Teniamo tutte le domande su questioni relative all'esame finale in questo post, così le risposte sono visibili a tutti.
Alcuni hanno chiesto se gli studenti che hanno risposto a 6 o 7 domande e si presenteranno con il video dovranno poi rispondere anche ad altre domande. La risposta è no. Avete già una valutazione che vi siete guadagnati durante il corso, la confermate con i tre minuti di video e registriamo il voto.

Ricordate che il lavoro che avete fatto rispondendo alle domande vale per tutto l'anno accademico, fino agli esami di settembre 2017. Potete portare il video oppure esonerare le parti relative alle risposte date fino alla sessione di esami autunnale.

venerdì 16 dicembre 2016

Lezioni del 13 e 14 dicembre 2016

Uno dei momenti i cui la legge, le contingenze storiche e le ideologie convergono in modo eclatante è un avvenimento: la Rivoluzione francese del 1789.
Uno dei punti di riferimento teorici della rivoluzione fu il filosofo illuminista Rousseau (1712 -1778), che si dedicò tra le altre, ad opere sulle teorie generali che dovrebbero orientare il diritto. Nel 1762 pubblicò il suo Contratto Sociale, le cui dottrine costituiscono uno dei principali rifermenti della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e dell’assetto istituzionale che assunse la Francia rivoluzionaria; si può dire che la rivoluzione francese portò alla realizzazione concreta di alcune idee formulate in via teorica dal filosofo.
Le dottrine sul contratto sociale vennero sviluppate anche in seguito alla crisi del terremoto di Lisbona e sono intrise di quel disincantamento del mondo tipico dell’epoca illuministica. Anche Rousseau, infatti, esclude dalla sua nozione di potere la derivazione divina di questo. Il potere roussoniano deriva dal popolo ed è il popolo a detenerne la titolarità anche quando il potere viene conferito, mediante un contratto sociale, ad un sovrano che lo eserciti per conto dei cittadini. Il contratto sociale di Rousseau, dunque, non aliena definitivamente il potere ma lo conferisce mediante una sorta di mandato. Questo potere non è affatto un potere a immagine del potere divino e non è, pertanto, insindacabile. L’impianto rousseauiano si basa su un’idea di democrazia secondo la quale è il popolo, titolare del potere, che attraverso le proprie istituzioni rappresentative orienta tutto l’ordinamento ed anche l’agire del sovrano. L’ Assemblea conserva l’autorità popolare ed il suo potere è assoluto, essa controlla l’operato di tutte le altre istituzioni esprimendosi attraverso la legge: con Rousseau si inaugura un’epoca di assolutismo legislativo senza il contrappeso di altri poteri che ne limitassero la portata.
Tutto ciò trova ben presto conferma nella storia. Per la prima volta dopo decenni di inattività vennero riconvocati gli Stati generali, le assemblee rappresentative del clero della nobiltà e del terzo stato. Già nel giugno 1789 venne raddoppiata la rappresentanza del terzo stato, definito dall’ abbate Sieyès come la nazione dei francesi, oppressa dagli altri due stati dell’antico regime. Il peso ormai insopportabile del sistema di vincoli alle persone ed alle cose imposto dall’antico regime, ed il crescente fermento sociale sono testimoniati da una serie di documenti prodotti dalle assemblee locali, i cd cahiers des doléances, letteralmente i quaderni delle lamentele. Essi rappresentano uno straordinario catalogo delle doglianze del popolo francese contro il potere esercitato dai signori locali e dalle autorità ecclesiastiche, in base ai vincoli di carattere patrimoniale sulla cosa concessa al dominus utilis, secondo il tipico modello feudale e che tuttavia comportavano, come abbiamo visto, anche poteri di natura pubblicistica di costrizione, incarcerazione ed esercizio tout court della giurisdizione penale e di prelievo. Essi sono, in altre parole, le critiche sollevate dalla nazione stessa contro lo stato, e tutte le manifestazioni del potere signorile feudale che determinavano la costrizione dei ceti meno abbienti e l’inalterabilità della loro condizione.
L’assetto costituzionale che si stabilisce dopo la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 è, in questo senso, tipicamente rousseauiano: vennero distrutti tutti i simboli dell’antico regime e una grande assemblea nazionale venne posta a controllo di tutte le attività di governo, esercitando tale potere mediante la legge; il governo ed i magistrati attuavano, così, la legge alla stregua di macchine, senza avere la possibilità di incidervi. Con la legge si perseguiva ogni tipo di intervento del potere del popolo sulla sua propria nazione; qualsiasi attività di governo e gestione doveva essere enunciate mediante strumento della legge che le autorizzava. L’attività di governo non autorizzata era illegittima ed in quanto tale doveva essere soppressa.
Vennero, poi, eliminati tutti i vincoli alla piena disponibilità dei diritti imposti dall’ antico regime che limitavano i poteri della volontà dei cittadini e dei beni. Il sistema del “possesso dei diritti” determinava, infatti, l’immobilità dell’economia a scapito delle aspirazioni di miglioramento del terzo stato: la libera disponibilità delle cose è la premessa fondamentale allo sviluppo del capitalismo borghese; l’accumulazione capitalistica non sarebbe possibile se le cose non fossero libere.
La disposizione legislativa che determinò la liberazione integrale ed improvvisa da tutti i vincoli feudali ha pochi paragoni nella storia europea: essa determinò l’abolizione della base giuridica sulla quale qualcuno esercitava un proprio diritto dal contenuto economico consolidatosi nel tempo, senza prevedere alcun indennizzo- in contrasto con i principi di diritto romano in tema di espropriazione (indennizzo e pubblica utilità). È un provvedimento, questo, tipico della rivoluzione che espropria i diritti semplicemente perché ritenuti ingiusti. Vennero, infine, confiscati tutti i beni ecclesiastici con un grande introito per le casse statali rivoluzionarie.
I due diritti fondamentali che erano stati compressi dal sistema dell’antico regime e che ora chiedevano riconoscimento erano la libertà e proprietà. La libertà pretesa è, ovviamente, quella descritta nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, ma a monte essa presuppone un concetto di contenuto più economico: libertà dai doveri imposti alla persona dal regime feudale, secondo il sistema di possesso dei diritti. Per essere suscettibili di possesso alcuni diritti erano stati, infatti, considerati alla stregua di diritti reali anche se non avevano, di fatto, un contenuto reale in cui oggetto del diritto e del relativo potere non era la cosa ma la persona stessa. Questa estensione incontrollata del possesso aveva portato a considerare tutta una serie di posizioni come permanentemente subordinate ad altre, che esercitavano la loro autorità sopra al corpo di una persona formalmente libera, qualificando tale condizione di assoggettamento come una servitù irregolare. Libertà, in definitiva, significa libertà del corpo del cittadino che non deve essere gravato dal potere altrui. La rivoluzione francese limitò i vincoli di assoggettamento ad un’unica eccezione transeunte: la minore età.  Il concetto di libertà si applica anche al secondo grande diritto, la proprietà, che rappresenta un’analoga libertà sulle cose, mediante l’abolizione di tutti i vincoli sui beni che ne impedivano la libera circolazione in quanto gravate dal potere di qualcun altro.
Il passaggio rivoluzionario operò, in sostanza, la principale semplificazione del diritto privato la cui mancanza aveva determinato l’impossibilità di una semplificazione sostanziale del diritto del codice prussiano: l’unità del concetto giuridico di persona e l’unità della cosa in diritto.
 Lo stato democratico in cui non vi era più un bilanciamento tra poteri diversi, tuttavia, produsse un cortocircuito: gli interessi di alcune parti della popolazione, la borghesia, cominciarono ad incidere in maniera preminente sull’assemblea legislativa. L’assolutezza del potere popolare degenerò nel cd Periodo del Terrore, in cui moltissimi cittadini vennero processati in base al sospetto di aver ordinato un complotto contro la nazione. Le istituzioni si autolegittimavano, così, attraverso la persecuzione dei complotti creando unione e approvazione mediante la creazione artificiale di nemici comuni.
Il diritto cd intermediario oltremodo innovativo, degli anni della rivoluzione, subì, una decisa inversione di marcia con il Code Napoléon, soprattutto per quanto riguarda il diritto di famiglia poiché, con le trasformazioni in questo campo si era andata minare proprio la struttura stessa della società francese.
Uno degli elementi per capire la trasformazione europea post rivoluzionaria è anche la forte fase di espansione militare della Francia in tutta Europa. È in questo contesto che si inserisce l’ascesa del futuro imperatore Napoleone Bonaparte. Grazie alle conquiste in territorio tedesco, italiano e spagnolo la cultura giuridica conobbe un nuovo momento di unificazione. In questi anni tutta l’Europa entrò in contatto con gli effetti della Rivoluzione francese e ne venne segnata profondamente.  Parigi venne considerata la nuova “capitale d’Europa”, punto di riferimento del progresso dello stato liberale. Tutte le sperimentazioni istituzionali, i moti rivoluzionari, le innovazioni costituzionali nacquero da Parigi. L’espansione militare aveva prodotto una centralità del mondo francese senza precedenti.
Tra i suoi obiettivi Napoleone pose anche la sistemazione di tutto il diritto privato sotto la forma di un codice chiaro e comprensibile da tutta la nazione. Il risultato fu un piccolo codice dalla chiarezza quasi “cartesiana”, espressione concreta dell’utopia illuminista di sistemazione del diritto secondo schemi razionali. Egli voleva fare dell’ordinamento un’infrastruttura al servizio dello sviluppo economico e sociale della nazione. Il Code Napoléon è, infatti, un tipico codice borghese tutto organizzato attorno all’istituto della proprietà, che prevale addirittura sulle forme contrattuali, relegate in un separato codice del commercio.
Uno dei pochi elementi di innovazione rivoluzionaria a rimanere in piedi nel codice e poi anche dopo l’età della Restaurazione, fu il principio enunciato nella legge Le Chapelier nel 1791 dall’assemblea nazionale: sul presupposto teorico che anche le associazioni configurassero un privilegio di qualcuno sul corpo di qualcun altro, si stabilì il principio per cui non può essere imposto nessun limite all’economia che non sia voluto dallo Stato stesso, determinando come necessaria conseguenza lo scioglimento di tutte le associazioni corporative e la necessità di un riconoscimento da parte del potere centrale per le società commerciali. Tutte le associazioni per essere considerate persone giuridiche e, dunque, soggetti di diritto dovevano essere autorizzate dallo Stato. Le associazioni, soprattutto di mestiere, che controllavano la produzione e l’economia del paese, nel rispetto di una tradizione diffusa in tutta Europa, infatti, contrastavano con il principale elemento del nuovo diritto borghese: l’individualismo. Nessun corpo intermedio si sarebbe dovuto frapporre tra lo Stato ed il cittadino: dal 1791 in poi ogni cittadino divenne solo davanti allo stato, senza la tutela di alcuna associazione intermedia, ed anzi lo stato divenne l’unico a detenere il diritto-dovere di prendersi cura dei singoli.
L’imperatore Napoleone, poi, riformò anche l’insegnamento universitario del diritto con l’obiettivo principale di fondare una cultura giuridica unitaria. Tutte le università divennero succursali di quella di Parigi che ne determinava i modi e metodi di insegnamento. Lo studio teorico del diritto divenne, per volontà dell’imperatore stesso, un’esegesi del codice: un commentario secco al testo, una nuda spiegazione del contenuto degli articoli della norma, senza la possibilità per il giurista – così come per il magistrato- di interpretarli sistematicamente. Napoleone voleva, infatti, che il suo codice fosse autosufficiente e portò all’estremo il positivismo nato in ambito rivoluzionario, arrivando a negare l’autorevolezza giuridica dei concetti di derivazione tradizionale o culturale non fissati dalla legge. Il modello di insegnamento francese viene definito dalla storiografia del diritto come “scuola dell’esegesi”.
Anche dopo la restaurazione molti stati, soprattutto italiani, mantennero il modello del codice napoleonico: il Regno delle due Sicilie promulgò il proprio codice già nel 1819 e quello di Sardegna nel 1837. Rimasero avulsi da tale sistema il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, ma complessivamente si può affermare che quasi tutta l’Europa continentale operò la scelta per un diritto codificato, un diritto, cioè, razionalmente semplificato che aveva abbandonato il complesso sistema del diritto comune.
La Germania operò, invece, una scelta diversa.  Nel 1814 essa si sottopose ad un acceso dibattito sulla convenienza o meno di adottare una codificazione. V’è anche da considerare il connesso problema che, in generale, si pose alla scienza giuridica dell’800, intenta ad indagare circa il ruolo più o meno creativo del giurista e l’essenzialità o meno del suo operato ai fini della completezza del sistema. In questo contesto, si contrapposero le soluzioni di due grandi giuristi dell’epoca: Thibaut e Savigny. Thibaut propose una codificazione unitaria per tutta la nazione tedesca: voleva creare, secondo il modello universalista illuminista, mediante un’operazione razionale un’infrastruttura giuridica valida per tutti i principati tedeschi, con l’obiettivo eminentemente economico di facilitarne gli scambi commerciali. Egli era convinto, da buon romantico e nazionalista, della germanicità unitaria di tutti i popoli tedeschi. Dal canto suo, von Savigny riteneva che la giuridicità di una norma non dovesse derivare dalla razionalità o dall’imposizione formale di una legge ma dallo spirito del popolo stesso, che riconosceva una regola come giuridica e dunque vincolante. Ciò che avrebbe accomunato i popoli tedeschi, dunque, non sarebbe stata l’imposizione della razionalità di un sistema artificiale ma la loro tradizione comune, la storia. L’identità giuridica dei popoli risiedeva nella storia ed in essa andava ricercata.
In questa ricerca, la scuola storica di Savigny si “appropriò” del diritto romano, usando le fonti del diritto civile antico per costruire un diritto civile tedesco. Tale appropriazione venne giustificata da Savigny, ancora una volta, tramite la storia all’esito di  un percorso intellettuale che va dalla pubblicazione di un trattato sul possesso nel 1803, passa dal 1814, anno in cui è viva la polemica sulla “ vocazione del nostro secolo per la legislazione e la scienza del diritto” – citando il titolo del suo componimento, e approda alla pubblicazione, nel 1815 del trattato “Storia del diritto romano nel medioevo”, in cui il giurista espone che fu proprio il passaggio del diritto romano attraverso il germanissimo medioevo a giustificarne l’appropriazione. Tutto ciò rappresenta la fondamentale premessa all’opera più matura di von Savigny: System des heutigen römischen Rechts, letteralmente “il sistema del diritto romano attuale”, il diritto romano, dopo una minuziosa ricerca delle fonti necessarie a ricostruirne il volto originario, venne riproposto attualizzato come diritto vigente. La nuova scienza romanistica riorganizzò i concetti del diritto romano estraendo quelli più importanti e ponendoli alla base di un nuovo sistema di diritto civile. Il diritto tedesco venne così affidato non alla codificazione ma alla scienza giuridica, intenta a rielaborare i contenuti del diritto romano mediante la costruzione di un enorme castello di concetti portanti -Begriffe- e di categorie generali del diritto. La branca della scuola storica che si occupò di riorganizzare i concetti delle norme del Digesto per inventarne di nuovi e più generali, come quello del “negozio giuridico”, prende il nome di Pandettistica.
La Germania divenne così il tempio della scienza giuridica, meta di pellegrinaggio da parte dei giuristi di tutta Europa. Tale centralità si estese fino in Francia ed in Italia, nonostante la presenza del codice; esso, anzi, venne reinterpretato alla luce della nuova scienza dei Begriffe. Aubry e Rau furono i primi a redigere un commentario al codice francese utilizzando la tecnica di riorganizzazione dei concetti. La necessità di apprendere questa nuova metodologia, inoltre, provocò una grandissima ondata di opere di traduzione da parte dei migliori giuristi italiani, non senza riadattamenti alle esigenze della situazione normativa italiana.
Sia l’impianto borghese dei codici moderni, sia l’elaborazione del diritto romano della pandettistica ebbero come risultato un forte individualismo che, se da un lato permetteva il progresso economico, l’accumulazione capitalistica e la parità di tutti i soggetti dinanzi allo Stato, dal punto di vista economico-sostanziale creava forti iniquità per tutti i soggetti che, seppur affrancati dai vincoli, non avevano la concreta possibilità di avanzamento. Cominciarono, quindi, ad entrare in conflitto la scienza del diritto, che aveva ad oggetto una società del tutto astratta e diversa da quella reale, e la scienza economica che criticava aspramente i fondamenti degli ordinamenti europeo: la logica strettamente individualista, infatti, aveva provocato effetti socialmente inaccettabili.
L’abolizione delle forme di possesso dei diritti, tipiche dell’epoca medievale, con la conseguente eliminazione delle tutele di natura reale al diritto vantato, se è vero che aveva creato l’uguaglianza contrattuale dei soggetti, tuttavia, in quanto artificio, era concretamente un’ingiustizia. La grande disuguaglianza che prima era determinata dalla legge del codice prussiano diviso in 4 categorie di soggetti, era ora negata dalla legge, ma determinata dall’economia stessa.
Ciò accadde ad esempio per quanto riguarda il contratto di locazione degli immobili di abitazione, considerato un rapporto meramente obbligatorio, in cui con l’esaltazione del diritto di proprietà, il locatore poteva in qualunque momento sfrattare il conduttore, che non aveva alcuna forma di tutela reale sulla cosa locata e che dunque non poteva chiedere la reintegra nel possesso, qualora fosse venuta meno la volontà iniziale; ed accadde, a fortiori, nel contratto di lavoro in cui due soggetti formalmente identici non avevano uguale forza contrattuale dal punto di vista economico, poiché, tra l’altro, le associazioni sindacali a tutela dei lavoratori erano illegittime in quanto considerate “corpi intermedi”.
L’ottocento fu un’epoca di forte conflittualità economica che spesso sfociò in episodi di irrequietezza sociale, culminati nei moti del ’48. Era dunque necessario inserire all’interno degli ordinamenti forti elementi di socialità che temperassero le iniquità sostanziali. Furono proprio le dottrine economiche a proporre le prime innovazioni legislative.
Nella prima metà dell’800 dalla scuola storica si diramò un’ulteriore branca, fortemente romantica: quella dei Germanisti. Essi criticarono Savigny per aver posto al centro dell’ordinamento tedesco il diritto romano, fortemente individualistico, poiché i tedeschi rispondevano a ben altre caratteristiche. Menzioniamo i due principali istituti giuridici che i germanisti individuavano nella tradizione tedesca, opponendoli ai loro corrispondenti romani.
1. La prima grande caratteristica dei popoli germanici era la loro identità corporativa: il singolo individuo non era solo dinanzi allo stato vi erano diverse comunità che si prendevano cura delle sue esigenze, prestandogli aiuto e soccorso affinché nessuno rimanesse senza tutele; la nazione tedesca era l’unione di tutti questi diversi corpi. I Germanisti insistettero molto su questo concetto di Genossenschaft, della funzione, cioè, costitutiva e costituzionale della corporazione in Germania.
2. I popoli germanici avevano poi posto al centro dei loro ordinamenti la gewere che, consistendo in un sistema di distinzione labile tra diritti reali e obbligazioni, comportava che la tutela del proprio diritto fosse svincolata dalla titolarità e legata piuttosto all’apparenza.
Una delle personalità che si occupò di formulare una giustificazione storica di questa impostazione fu Otto von Gierke, giurista molto sensibile alle istanze sociali e impegnato per la costruzione di un diritto nazionale tedesco fortemente solidaristico.

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I Germanisti spinsero, quindi, per una risistemazione del diritto privato affinché la legge si facesse carico di alcune esigenze che, per definizione, private non sono, poiché sociali. La Germania si stava avviando, così, verso la codificazione tedesca, concretizzata nel BGB del 1900. Anche la Francia cominciò, progressivamente, ad accogliere istanze analoghe, e nonostante la scelta nazionale per la legislazione la cultura giuridica svolse un ruolo di stimolo nei confronti del legislatore.
A cura di Chiara Casuccio

martedì 13 dicembre 2016

Le lezioni termineranno il 14 dicembre, ma il blog continua

Le lezioni dovranno terminare il 14 dicembre (domani) perché per disposizioni centrali questa è l'ultima settimana di lezione prima di Natale.
Non avevo previsto questa chiusura un po' anticipata, ma cercherò di arrivare a coprire l'Ottocento, almeno per linee generalissime.
Ovviamente non saremo in condizione di correggere tutte le risposte alla sesta domanda entro domani, perciò ci prenderemo anche la prossima settimana, e posterò la domanda prima di Natale, il giorno 23 alle ore 13,00.

La settima domanda verterà sui temi trattati nell'ultima settimana. Vi consiglio di concentrare lo studio su tre testi disponibili nella piattaforma e-learning: nella sezione Lo Stato moderno e il suo diritto soffermatevi sul testo di Fioravanti su Stato e costituzione, su quello di Costa sui Diritti e su Solimano, Un secolo giuridico, che è lungo ed è spezzato in quattro parti. Gli altri sono utili ma non indispensabili.

Chi ha bisogno di rispondere alla sesta domanda studierà anche la prossima settimana. Io metterò un post dedicato a raccogliere i vostri dubbi e le vostre domande sul programma, e risponderò sempre sul blog durante la prossima settimana. Dunque se le lezioni finiscono, non finisce l'attenzione che dovrete dedicare alla materia per concludere il corso.

Lezione del 12 dicembre 2016

Il ragionamento giuridico sui grandi temi, nel tardo Seicento, non fu di appannaggio esclusivo dei giuristi: molti filosofi si occuparono, infatti, di temi come i diritti fondamentali della persona o il rapporto tra diritto e potere. Uno dei filosofi più importanti di questo periodo è l’inglese Thomas Hobbes che pubblicò nel 1651 l’opera il Levitano, la quale divenne il punto di riferimento di tutte le teorie sul potere fino al 900. Il principio cardine della sua teoria del potere è quello per cui, privandosi delle proprie libertà, i cittadini possono conferire, con un patto sociale, un potere di tipo assoluto al sovrano in quanto, in quel momento, egli non rappresenta la persona fisica con tutto il suo bagaglio di passioni umane, ma una “persona giuridica” rappresentativa di tutto il popolo. È solo il sovrano che può garantire ai sudditi la vera libertà: i diritti dei singoli non sarebbero esercitabili se non fossero alienati ad una persona che li tuteli al loro posto. Tale potere è dunque un rimedio artificiale alla violenza della natura, relegata a mero presupposto rispetto allo stato di diritto – homo homini lupus.
Questo principio venne poi applicato nell’arco di tutto il 700, il Secolo dei Lumi, a tutti gli esperimenti di assolutismo illuminato. Nel tentativo di descrivere questo secolo ricco di innovazioni, la nostra attenzione si concentrerà su tre diversi profili:
1. Il rapporto tra diritto e religione.
2. La prospettiva assolutistica come strumento indispensabile delle riforme
3. La decisa scelta della cultura del 700 per un approccio propriamente scientifico, sia nei confronti della natura e della tecnologia, sia nei confronti della società.
Fu, infatti, proprio durante il settecento che l’antico rapporto di interdipendenza tra diritto e religione stabilito con Costantino venne troncato definitivamente: vennero formulate le prime teorizzazioni di un diritto senza Dio e la trascendenza del sistema che aveva orientato tutti gli ordinamenti fino ad allora scomparve. L’esclusione della religione dalla storia giuridica non fu solo ideologica. Moltissimi stati europei, a partire dal Portogallo, infatti, espulsero dai propri territori i gesuiti, una compagnia considerata troppo ingerente nelle idee politiche della classe dirigente.
La compagnia di Gesù è, inoltre, degna di nota poiché realizzò nelle Americhe un esperimento sociale – possibile poiché le colonie rappresentavano un territorio vergine dal diritto e dal potere – in cui l’aspetto comunitario della società rimase al centro del vivere civile, al contrario di quanto stava accadendo nel Vecchio Continente, in cui al centro dello stato vi erano non più le comunità ma gli individui. Tale esperimento destò molto interesse in grandi pensatori del tempo come Ludovico Antonio Muratori.
La divaricazione tra il diritto e la religione, nel quadro di un ampio fenomeno che è stato chiamato “disincantamento del mondo” (Gauchet) fu al centro della forte presa di posizione di Voltaire, stimolata dal fortissimo terremoto che devastò la città di Lisbona nel 1755.
L’allontanamento sempre più deciso della cultura dalla religione deve essere necessariamente posto in stretta relazione con il nuovo approccio scientifico di studio della realtà: la società, infatti, divenne oggetto di studi di tipo matematico; si cominciò a pensare di poter spiegare qualsiasi fenomeno, anche economico (v. A. Smith) o giuridico, nei rigidi termini della logica matematica. Vari furono i tentativi, prima teorici e poi anche pratici, di semplificazione dell’ordimento e la ricostruzione del diritto alla luce di una stringente logica matematica. Il più famoso di questi tentativi teorici fu quello di Leibniz, giusnaturalista tedesco che elaborò un metodo di apprendimento del diritto improntato alla concatenazione dei concetti in base alle regole della logica.
L’elaborazione di queste logiche non rimase tuttavia sul mero piano speculativo; essa è posta alla base delle riforme, soprattutto legislative, attuate dai sovrani illuministi di epoca settecentesca. Questi si posero molto spesso l’obiettivo di razionalizzare il diritto, non più consolidando vecchie norme ma imponendone altre mediante la promulgazione di nuove leggi che rappresentassero “formule”, come quelle matematiche, che il giudice avrebbe dovuto applicare al singolo caso concreto senza più avere il potere di interpretazione e, in altre parole, di determinazione dell’ordinamento. L’idea che solo un’assolutezza del potere consentisse soluzioni veramente riformiste rispetto alla tradizione fu posta alla base della grande stagione di innovazione delle infrastrutture, giuridiche ed in generale di ogni aspetto del volto della nazione, dalla Francia alla Prussia all’Austria. La grande innovazione dell’epoca fu la razionalizzazione della principale infrastruttura giuridica: il diritto privato. In epoca illuministica si assiste, infatti, alla cosiddetta “corsa verso la codificazione”, in cui, ricorrendo allo strumento codicistico si tentò di semplificare, razionalizzare e riadattare vecchi istituti giuridici per poi imporli alla collettività promulgando il codice mediante la legge.
Il primo tentativo di codificazione di stampo illuminista venne effettuato in Prussia, commissionato da Federico II il Grande e promulgato dal suo successore Giuseppe II. Nonostante l’enorme sforzo di razionalizzazione e semplificazione operato dai giuristi che lo compilarono, questo codiceincontrava un limite rappresentato dalla società stessa che si proponeva di disciplinare: la società di antico regime, infatti, era costituita da diverse categorie di persone e di beni, con la conseguenza che la disciplina privatistica, per quanto semplificata, si declinava necessariamente in modo differente per ognuna di queste categorie. Questa è la grande differenza che distingue questo codice da quello napoleonico, intervenuto quando la rivoluzione francese aveva già trasformato la società di antico regime in società borghese.

In questo, il sistema inglese, con il suo conservatorismo, rappresentò un’eccezione, innovandosi sì, ma mediante strumenti differenti che non determinarono mai una cesura netta rispetto al passato.