I primi decenni successivi all’incoronazione di Carlo Magno furono un’epoca
di fioritura dell’impero il cui ideale era rappresentato dalla ricostituzione
di quell’universalismo che era andato perso a seguito della caduta dell’Impero
romano d’Occidente nel V secolo.
I segni visibili di questa tendenza all’universalità sono riscontrabili nei
campi più disparati: dall’introduzione di un’unica grafia, la cosiddetta
scrittura carolingia, o di uniche unità di misura. Queste preoccupazioni sono
attestate dalla legislazione legislazione dell’Impero (Capitularia),
che si rovolge anche a favorire la coesione di quello che tra tutti era
l’organismo universale per definizione: la Chiesa cattolica.
Tale scopo venne perseguito dall’imperatore mediante l’emanazione di norme
formalmente laiche ma aventi come contenuto quello di disciplinare la vita
della Chiesa, la cui regolazione era funzionale alla vita dell’impero stesso.
Ad esempio, nel concilio dell’802
indetto da Carlo Magno in persona, l’imperatore ordinò il controllo e la
redazione di un’unica versione dei testi sacri, l’elaborazione di un’unica
liturgia, e la canonizzazione della regola benedettina.
Lo stesso concilio, tuttavia, è testimone anche di una diversa e, per certi
aspetti, opposta tendenza, quella al riconoscimento dei particolarismi dei popoli dell’impero. Nell’802, infatti, Carlo
Magno ordina la messa per iscritto e la correzione di tutte le leggi popolari.
La natura composita delle tradizioni giuridiche dei popoli che compongono
l’Impero è attestata anche dal fenomeno delle professiones iuris, le dichiarazioni circa il diritto che si
intende applicare in un determinato atto dispositivo presenti nei documenti di
epoca carolingia.
Secondo la storiografia ottocentesca, queste professiones, sulla cui base sarebbe stato costruito il concetto di
“personalità del diritto”, avrebbero rivelato una natura fortemente etnica
delle norme giuridiche. Forzando il dato storico la teoria in questione avrebbe
“anticipato” il fenomeno fino al tempo delle doppie legislazioni di epoca
“barbarica”.
In realtà, prima dell’età carolingia il problema della personalità del
diritto non si era mai posto, né è stato mai testimoniato da alcuna fonte
storica. Il problema di specificare quale tipo di diritto si sarebbe applicato
ad una determinata fattispecie nasce insieme alla ricostituzione dell’impero
universale. Che l’applicazione delle norme non seguisse l’etnia di chi doveva
applicarla è confermato, poi, dal fatto che la scelta del diritto da utilizzare
fosse basata non già sulla provenienza della norma ma sulla convenienza di
essa.
Un ulteriore problema che è stato posto dalla storiografia giuridica
nell’Ottocento e del Novecento è quello delle fonti che attestano un ritorno al
diritto romano nell’età carolingia. Minuziose ricerche hanno riesumato le varie
riapparizioni di lex romana e le abbreviazioni
di fonti giustinianee che fecero la loro comparsa nel secolo IX. Questo
interesse era condizionato dall’importanza che aveva rivestito per la scuola
storica tedesca il diritto romano come fonte del diritto privato ottocentesco e
novecentesco. La questione che si poneva era dunque quella di chiedersi se
questo diritto avesse attraversato l’alto Medioevo o fosse quasi caduto in
disuso, prima di essere recuperato nel XII secolo.
Dal quadro di fonti che abbiamo sembra che le parti del Corpus Iuris di Giustiniano che ebbero
qualche circolazione in età carolingia siano state il Codice e le Novelle, ma
entrambi sottoforma di abbreviazione: l’Epitome
Codicis e l’Epitome Iuliani. Le
altre compilazioni portano in certi casi il nome di Lex romana, e tramandano raccolti di pezzi sparsi.
In tutte queste fonti traspare una caratteristica comune: che le raccolte o
le abbreviazioni erano redatti senza curarsi del quadro complessivo
dell’ordinamento vigente che il legislatore (ad esempio Giustiniano) aveva
voluto dare alla sua legislazione. I testi si riassumevano, si modificavano, si
sfrondavano di ciò che i loro raccoglitori ritenevano superfluo.
Questo atteggiamento disinvolto verso la legislazione trova la sua
espressione più estrema nella diffusione delle falsificazioni, che nacquero
negli stessi ambienti ecclesiastici che tramandarono le sillogi di diritto
romano.
La falsificazione più diffusa, le Decretali
pseudo-Isidoriane ebbe una larghissima ricolazione per secoli, e risulta
effettivamente utilizzata già nel IX secolo. Stabilisce criteri di giustizia
che non trovavano supporto legislativo, rivestendo di auctoritas un contenuto che il falsario riteneva carico di equità,
e quindi meritevole di sanzione legislativa.