giovedì 26 ottobre 2017
La domanda del 3 novembre
Siccome il 1 novembre è festa, la domanda del 3 novembre verterà sui temi trattati nelle lezioni dei giorni 25, 30 e 31 ottobre.
Lezione del 25 ottobre 2017
Lezione 25.10.2017
Si è parlato dell’edictum de beneficiis
di Corrado II e della forte esigenza di stabilità da parte della società di
questo periodo. La parola stabilitas è, per l’appunto, una fondamentale
chiave di lettura di questo momento storico specialmente per quanto riguarda l’àmbito
giuridico.
Uno dei temi più importanti relativi a
questo periodo è quello legato alla ricerca di firmitas et stabilitas del
diritto e, soprattutto dei diritti che si cerca di ottenere per mezzo della
scrittura. La formazione di un atto scritto sorge proprio perché risponde a
questa esigenza ed è uno strumento idoneo a dimostrare un determinato diritto
in sede giudiziale per mezzo di un’ostensio chartae (si mostrava un
certo documento che testimonia un certo diritto) così da evitare la prova
ordalica. A tale fenomeno è collegata la nascita di un nuovo operatore del
diritto: il notaio. Il notaio è la prima figura professionale educata e formata
al diritto e con uno spiccato carattere pubblico dal momento che, a differenza
dei giudici, è manifestazione di un vero e proprio pensiero giuridico alla base
del suo operare (Witt sostiene che sia un’anticipazione della cultura giuridica
laica del basso medioevo).
Questa fenomeno pone un problema, molto
discusso dalla storiografia del ‘900: il documento scritto ha valore squisitamente probatorio o
anche costitutivo del diritto de quo. In quale momento il negozio si
perfeziona? Cortese risolve la questione affermando che probabilmente l’atto
scritto aveva valore meramente probatorio dal momento che la pubblicità poteva
ottenersi o tramite la celebrazione di un rito (tipo il Gairethinx) oppure per
mezzo della redazione di un atto scritto che garantiva una stabilità prolungata
nel tempo.
Il vero motivo per cui questo aspetto è interessante è che nel tempo
iniziano a comparire dei documenti che effettivamente forniscono dei diritti ai
soggetti che li posseggono a prescindere dal soggetto con cui il negozio è stato
concluso. Secondo il modello romanistico il titolo derivava sempre dall’obbligo, mentre in questo caso la
carta incorpora la titolarità dell’azione. Tale ragionamento portò la
storiografia tedesca ad affermare che questo modello origina dalle regole del
diritto germanico che consentivano tale incorporazione, dal momento che i
diritti germanici riconoscevano giuridicità dell’apparenza del diritto assai
più che alla titolarità vera e propria. Se l’interpretazione è scorretta, il
ragionamento si mostra, però, molto interessante. Infatti, per spiegare questo meccanismo si parla di investitura che è una parola tipicamente
medievale e fortemente connessa al diritto feudale. La parola vestitura è
quella che è parsa interpretare la forma tipica dei diritti reali negli anni
che precedono l’anno 1000 e sarebbe, secondo i germanisti, la traduzione latina
dell’istituto della Gewere: il modo tipicamente germanico di
appropriazione delle cose senza distinzione tra possesso e proprietà e tra beni
materiali ed incorporali. Non c’è alcuna testimonianza della parola Gewere
prima dell’VIII secolo mentre della parola vestitura abbiamo
testimonianze scritte. Anzi, leggendo i documenti ci si accorge che è il verbo vestire
(revestire a seguito di uno spoglio) ad apparire per primo nel mondo
visigoto. È curioso il fatto che i germanisti non abbiano pensato che il vestire
sia il contrario dello spogliare e che dunque la Gewere originasse
proprio da queste procedure che sono di matrice tipicamente ecclesiastica. Un
noto esempio dell’uso di tali termini si ha nel caso del divorzio dell’imperatore
Lotario dalla moglie Theutberga. Theutberga era stata ripudiata dall’imperatore
perché accusata di incesto. Perciò Lotario chiede al Papa il divorzio così da
poter sposare la sua concubina Waltraut con la quale aveva già dei figli. Il
Papa, però, interrompe il procedimento di divorzio a seguito della richiesta di
Theutberga che afferma di essere stata spogliata del suo status
di moglie prima di una sentenza che accertasse il crimine di cui era accusata e
per potersi adeguatamente difendere chiede di essere revestita
dei suoi diritti. In questo caso emerge chiaramente come la Gewere
non attenga solamente ai diritti reali ma ricopra un àmbito ben più ampio, che
comprende anche lo status coniugale.
Un ultimo tema riguardante le obbligazioni
ed i contratti: la convenientia. É una parola che ha suscitato molte riflessioni
a partire dagli studi sul tema di Francesco Calasso della metà del Novecento.
Una delle idee di Calasso era che l’evoluzione del contratto potesse essere
riassunta in una parabola giuridica che partiva con un estremo formalismo per
avvicinarsi al sostanzialismo del consenso. Dunque, in un primo momento la
validità dei contratti si basava esclusivamente sulla forma, successivamente
affiora l’importanza del consenso. Per Calasso, quindi, quando si legge la parola
convenientia nei documenti altomedievali è perché i notai capiscono che
ciò che ha valore è il convenire delle parti, ossia l’incontro dei
consensi. Cortese parla diffusamente di questo per smentire l’impostazione
calassiana: convenientia viene da convenire in senso fisico. Le
pari si recano dal notaio per esigenze, ancora una volta, formalistiche: ciò che
porta al trasferimento di un determinato diritto è la forma scritta ed è la
firma del notaio che dona firmitas et stabilitas al negozio.
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Ci si avvicina, così, alla fine dell’Alto
medioevo e l’XI secolo è un momento molto importante che si caratterizza per
una forte spinta di rinnovamento non solo per quanto riguarda l’Impero (con la
dinastia degli Ottoni si assiste ad un recupero della maestà di matrice
bizantina ed alla determinazione delle prerogative imperiali), ma soprattutto
la Chiesa.
A cura di Marta Cerrito
mercoledì 25 ottobre 2017
Lezione del 24 ottobre 2017 - Feudo
Lezione 24.10.2017
L’istituto del feudo non solo ha
caratterizzato il diritto medievale ma ha continuato ad influenzare il diritto
europeo sino all’età
napoleonica e, per quanto riguarda il
mondo anglosassone, anche dopo. Già
i primi giuristi che hanno studiato l’istituto
del feudo (a partire dal XIII secolo) si sono domandati in quale momento esso
sia nato e, soprattutto, quale fosse la base giuridica da cui il feudo traeva
legittimità
e non trovando appigli normativi si
sono risposti prevalentemente che esso sia sorto per consuetudinem.
Del feudo si conoscono
approfonditamente i singoli elementi che sono:
1. Rapporto personale: è chiamato tradizionalmente
vassallaggio ed indica il rapporto tra il signore ed il suo vassus. Questo
tipo di rapporto ha una lunga tradizione poiché già nel mondo romano l’imperatore
chiedeva un giuramento di fedeltà
ai soggetti a lui più vicini. Nel mondo carolingio questo
tipo di rapporto è
molto usato tanto che le singole
circoscrizioni amministrative dell’impero sono gestite secondo questo
rapporto che si basa, appunto, sulla fidelitas. Si tratta di un rapporto
bilaterale dal momento che il vassallo giura fedeltà al suo signore in cambio di
protezione. Inizialmente il singolo vassallo giurava individualmente e, dunque,
tale rapporto non interessava la sua famiglia e solo in seguito questo rapporto
diviene trasmissibile per via ereditaria. Una prima tappa importante verso l’ereditarietà si ha con la promulgazione del c.d.
capitolare di Quierzy di Carlo il Calvo nell’877 con cui non viene dichiarata l’ereditarietà dei rapporti di vassallaggio, ma
viene garantito che il figlio del vassallo morto in guerra avrà diritto ad una nuova investitura.
2. Elemento reale: indica il
bene associato all’elemento personale che veniva
conferito al vassallo. Il bene era costituito da terre o del regno o della
Chiesa e veniva trasferito in beneficium. In un primo momento a
seguito della morte del beneficiario il bene tornava al concedente ma con la
promulgazione del capitolare di Quierzy anche il beneficium inizia ad
essere regolamentato e ad assumere le sembianze di una “quasi
proprietà”.
Con Corrado II nel 1037 si ha una nuova costituzione (inizialmente solo per l’Italia)
che stabilizza definitivamente il beneficium dal momento che dichiara la
trasmissibilità
ereditaria dell’elemento
reale del rapporto feudale configurando definitivamente il feudo come una forma
di diritto reale. Con la nascita delle scuole di diritto verrà studiato il rapporto feudale e i
giuristi definirono il beneficium come un dominium ma utile,
mentre in capo al concedente resterebbe un dominium
più
astratto, denominato “directum”.
3. Elemento pubblicistico: è una delle cause della privatizzazione
del potere pubblico dal momento che consiste nell’attribuzione in
capo al feudatario di funzioni pubbliche (esazione delle tasse, amministrazione
della giustizia etc…). Nei casi in cui l’elemento
reale coincide territorialmente con quello pubblicistico il vassallo inizia ad
esercitare il potere pubblico di cui è
investito non più in nome e per conto dell’autorità pubblica ma in proprio nome. Tale
fenomeno trova la sua massima espressione nel regno d’Italia.
Il feudo era nato per regolare i
rapporti militari (homagium) ma in seguito investe anche i rapporti tra
i coltivatori della terra ed i proprietari terrieri (hominicium). L’alienazione
della propria libertà
e di quella della famiglia è a fondamento della nascita della
servitù della gleba, che si accentua per
rispondere al forte bisogno di stabilità
che caratterizza i secoli IX-XI.
Un altro tema è quello di alcune istituzioni e fonti
del diritto dell’Italia meridionale caratterizzata
dalla vigenza del diritto bizantino. Un primo aspetto interessante sono le
grandi compilazioni promulgate in Italia. La prima compilazione che interessa
risponde alle esigenze di semplificazione del diritto e prende il nome di Ecloga.
Da questa compilazione abbiamo notizia di alcuni istituti bizantini in
materia matrimoniale, che si devono menzionare anche perché
presentano ha alcune somiglianze con i diritti dei regni romano-barbarici, che
la storiografia ha qualificato come “germanici”.
Altro fattore rilevante è che l’imperatore Basilio
I abbia ordinato una nuova compilazione che consisteva nel recupero della
compilazione giustinianea (che era stata promulgata in latino) tradotta in
greco così
da favorirne la circolazione in
sessanta libri con il nome di Basilici. La promulgazione della compilazione
favorì
la nascita di un lavoro scientifico di interpretazione, che anticipa di oltre
un secolo la rinascita degli studi giuridici in Occidente.
A
cura di Marta Cerrito.
martedì 24 ottobre 2017
Lezione del 23 ottobre 2017
Lezione 23.10.2017
L’impero Carolingio e, soprattutto, la
figura di Carlo Magno sono stati interpretati a livello storiografico come un
momento simbolicamente rappresentante il rilancio dell’idea
di impero ad indicare quasi come un ponte tra Medioevo ed Antichità.
L’impero
di Carlo Magno può essere letto in base a due grandi
chiavi interpretative: l’universalismo cui tende ed il
mantenimento del particolarismo delle singole unità
che
lo compongono.
L’universalismo si mostra chiaramente in
alcune leggi imperiali che prendono il nome di Capitularia, nome che
rivela la forte influenza ecclesiastica (le norme ecclesiastiche erano
suddivise in capitula) visto che Carlo sente la sacertà
del
suo ruolo, ben più della romanità.
I Capitularia sono norme
generali volte al raggiungimento dell’uniformazione di molti aspetti della
vita dell’impero
così
da
superare la frammentazione del territorio. Per esempio viene introdotta una
nuova forma di scrittura (nel senso di grafia) che prende il nome di carolina
ed ha il vantaggio di essere molto leggibile e favorisce, in questo modo, la
circolazione dei libri e la trascrizione di un numero maggiore più
testi.
Uno degli aspetti più
interessanti
di questo universalismo è l’attenzione che Carlo riserva alla
riorganizzazione della Chiesa la quale aveva, a sua volta, subìto
una forte frammentazione. Carlo favorisce la riunificazione del clero in un
unico corpo e rinnova molti aspetti della vita ecclesiastica come, per
esempio, la liturgia ed introduce un
controllo di uniformità della circolazione dei testi sacri. In
questa direzione promulga un Capitolare tramite il quale impone che il clero
raggiunga un determinato livello di istruzione come condizione dell’ordinazione.
É
chiaro
come l’impero
sia sostenuto da un credo comune prima che da una cittadinanza e che Carlo
rappresenti il difensore della cattolicità (v.
repressione dei Sassoni) rifacendosi al modello costantiniano.
Sul piano del diritto le leggi che
Carlo promulga per la Chiesa prendono il nome di Capitolari ecclesiastici i
quali, poco dopo la morte dell’imperatore,
vengono riuniti in una sola raccolta da
Agobardo di Lione. Un momento importante di questa politica ecclesiastica è
rappresentato
dal concilio del 802 nel corso del quale l’imperatore emana una serie di capitularia
ecclesiastica finalizzati a riformare la Chiesa ed ordina, contestualmente,
la lettura delle leggi dei popoli che compongono l’impero
e dei rispettivi capitularia legibus addenda. Questo fatto è
sintomatico
della natura di tutto il governo di Carlo: la coesistenza dell’universalismo
ed il particolarismo normativo.
Un fenomeno che caratterizza tale
pluralità
di
ordinamenti all’interno dell’impero
carolingio è
la
pratica delle professiones iuris, ossia delle dichiarazioni unilaterali tramite le quali ogni
soggetto aveva diritto di scegliere il diritto in base al quale vivere. Tale
prassi venne studiata in maniera approfondita dalla storiografia ottocentesca
la quale, anche in analogia con la coeva esperienza coloniale, teorizzò il
c.d. principio della personalità del
diritto che dirimeva le controversie relative alla scelta del
diritto da usare anche in caso di negozio tra soggetti di etnia differente (si
applicava il diritto della parte più debole).
La Chiesa, invece, continuava a
regolarsi in base alle norme di diritto romano proprio in virtù
di
quell’universalismo
al quale, da sempre, ambiva. La vigenza del diritto romano ha portato la
storiografia del XX secolo a ricercare nei testi normativi circolanti negli
ambienti ecclesiastici un testimone della continuità
del
diritto romano nel Medioevo. Questa instancabile ricerca ha portato, però,
a risultati non troppo soddisfacenti visto che i testi studiati, pur essendo
numerosi, non trovano riscontri in altri manoscritti. L’esempio
più
importante
di questi testi è quello della Lex romana canonice
compta che contiene una scelta di norme che vengono dal codice teodosiano,
dalle novelle ed altre fonti. In questo processo, forse, è
stata
copiata anche la compilazione giustinianea ma non per l’uso
per il quale erano preferite le forme abbreviate (v. Epitome codicis).
Il fenomeno di abbreviazione del diritto romano da una parte rende possibile la
conservazione ma dall’altra va contro il volere di
Giustiniano.
All’indomani della morte di Carlo l’impero
cade in un periodo di forte decadenza che interessa anche la Chiesa, come dimostra, ad
esempio, il nascere e proliferare di chiese private appannaggio di potenti
feudatari. Sul piano normativo, però, questo periodo è
caratterizzato
da un fenomeno fondamentale del IX secolo, sorto come risposta della Chiesa alla
mancanza assoluta di un potere centrale: le falsificazioni. Gli enti
ecclesiastici si rivolgono a delle norme che sostituiscono l’imperatore
ed i compilatori incaricati della redazione di questi apparati normativi riassumono
i testi originari, li modificano, eliminano
ciò
che
ritengono superfluo e nel caso in cui manchi del tutto un testo giuridico usano
altri testi autorevoli (teologici, letterari) attribuiti ad un’autorità
(spesso
papi) legiferanti, e trasformati in questo modo in legge. L’esempio
più
noto
di tale fenomeno è costituito dalle decretali
pseudo-Isidoriane falsamente attribuite ad Isidoro di Siviglia. Questa
raccolta è
importante
da una parte perché
ebbe
una straordinaria diffusione (ne rimangono, oggi, circa un centinaio di
esemplari manoscritti), e dall’altra parte perché contiene alcuni principi che, benché introdotti attraverso norme false, furono però efficaci e in certi casi introdussero elementi destinati e rimanere patrimonio del diritto in Occidente. Ad esempio, abbiamo
notizia di una disputa del IX secolo in cui il vescovo Incmaro di Laon, accusato dallo zio, l'altro vescovo Incmaro di Reims, si difese richiamandosi ad alcune norme false della raccolta pseudo-isidoriana nelle quali si affermava il principio che nessuno può essere punito né spogliato della sua dignità o dei suoi beni finché non sia concluso un legittimo procedimento nei suoi confronti.
A cura di Marta Cerrito
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