Lezione 23.10.2017
L’impero Carolingio e, soprattutto, la
figura di Carlo Magno sono stati interpretati a livello storiografico come un
momento simbolicamente rappresentante il rilancio dell’idea
di impero ad indicare quasi come un ponte tra Medioevo ed Antichità.
L’impero
di Carlo Magno può essere letto in base a due grandi
chiavi interpretative: l’universalismo cui tende ed il
mantenimento del particolarismo delle singole unità
che
lo compongono.
L’universalismo si mostra chiaramente in
alcune leggi imperiali che prendono il nome di Capitularia, nome che
rivela la forte influenza ecclesiastica (le norme ecclesiastiche erano
suddivise in capitula) visto che Carlo sente la sacertà
del
suo ruolo, ben più della romanità.
I Capitularia sono norme
generali volte al raggiungimento dell’uniformazione di molti aspetti della
vita dell’impero
così
da
superare la frammentazione del territorio. Per esempio viene introdotta una
nuova forma di scrittura (nel senso di grafia) che prende il nome di carolina
ed ha il vantaggio di essere molto leggibile e favorisce, in questo modo, la
circolazione dei libri e la trascrizione di un numero maggiore più
testi.
Uno degli aspetti più
interessanti
di questo universalismo è l’attenzione che Carlo riserva alla
riorganizzazione della Chiesa la quale aveva, a sua volta, subìto
una forte frammentazione. Carlo favorisce la riunificazione del clero in un
unico corpo e rinnova molti aspetti della vita ecclesiastica come, per
esempio, la liturgia ed introduce un
controllo di uniformità della circolazione dei testi sacri. In
questa direzione promulga un Capitolare tramite il quale impone che il clero
raggiunga un determinato livello di istruzione come condizione dell’ordinazione.
É
chiaro
come l’impero
sia sostenuto da un credo comune prima che da una cittadinanza e che Carlo
rappresenti il difensore della cattolicità (v.
repressione dei Sassoni) rifacendosi al modello costantiniano.
Sul piano del diritto le leggi che
Carlo promulga per la Chiesa prendono il nome di Capitolari ecclesiastici i
quali, poco dopo la morte dell’imperatore,
vengono riuniti in una sola raccolta da
Agobardo di Lione. Un momento importante di questa politica ecclesiastica è
rappresentato
dal concilio del 802 nel corso del quale l’imperatore emana una serie di capitularia
ecclesiastica finalizzati a riformare la Chiesa ed ordina, contestualmente,
la lettura delle leggi dei popoli che compongono l’impero
e dei rispettivi capitularia legibus addenda. Questo fatto è
sintomatico
della natura di tutto il governo di Carlo: la coesistenza dell’universalismo
ed il particolarismo normativo.
Un fenomeno che caratterizza tale
pluralità
di
ordinamenti all’interno dell’impero
carolingio è
la
pratica delle professiones iuris, ossia delle dichiarazioni unilaterali tramite le quali ogni
soggetto aveva diritto di scegliere il diritto in base al quale vivere. Tale
prassi venne studiata in maniera approfondita dalla storiografia ottocentesca
la quale, anche in analogia con la coeva esperienza coloniale, teorizzò il
c.d. principio della personalità del
diritto che dirimeva le controversie relative alla scelta del
diritto da usare anche in caso di negozio tra soggetti di etnia differente (si
applicava il diritto della parte più debole).
La Chiesa, invece, continuava a
regolarsi in base alle norme di diritto romano proprio in virtù
di
quell’universalismo
al quale, da sempre, ambiva. La vigenza del diritto romano ha portato la
storiografia del XX secolo a ricercare nei testi normativi circolanti negli
ambienti ecclesiastici un testimone della continuità
del
diritto romano nel Medioevo. Questa instancabile ricerca ha portato, però,
a risultati non troppo soddisfacenti visto che i testi studiati, pur essendo
numerosi, non trovano riscontri in altri manoscritti. L’esempio
più
importante
di questi testi è quello della Lex romana canonice
compta che contiene una scelta di norme che vengono dal codice teodosiano,
dalle novelle ed altre fonti. In questo processo, forse, è
stata
copiata anche la compilazione giustinianea ma non per l’uso
per il quale erano preferite le forme abbreviate (v. Epitome codicis).
Il fenomeno di abbreviazione del diritto romano da una parte rende possibile la
conservazione ma dall’altra va contro il volere di
Giustiniano.
All’indomani della morte di Carlo l’impero
cade in un periodo di forte decadenza che interessa anche la Chiesa, come dimostra, ad
esempio, il nascere e proliferare di chiese private appannaggio di potenti
feudatari. Sul piano normativo, però, questo periodo è
caratterizzato
da un fenomeno fondamentale del IX secolo, sorto come risposta della Chiesa alla
mancanza assoluta di un potere centrale: le falsificazioni. Gli enti
ecclesiastici si rivolgono a delle norme che sostituiscono l’imperatore
ed i compilatori incaricati della redazione di questi apparati normativi riassumono
i testi originari, li modificano, eliminano
ciò
che
ritengono superfluo e nel caso in cui manchi del tutto un testo giuridico usano
altri testi autorevoli (teologici, letterari) attribuiti ad un’autorità
(spesso
papi) legiferanti, e trasformati in questo modo in legge. L’esempio
più
noto
di tale fenomeno è costituito dalle decretali
pseudo-Isidoriane falsamente attribuite ad Isidoro di Siviglia. Questa
raccolta è
importante
da una parte perché
ebbe
una straordinaria diffusione (ne rimangono, oggi, circa un centinaio di
esemplari manoscritti), e dall’altra parte perché contiene alcuni principi che, benché introdotti attraverso norme false, furono però efficaci e in certi casi introdussero elementi destinati e rimanere patrimonio del diritto in Occidente. Ad esempio, abbiamo
notizia di una disputa del IX secolo in cui il vescovo Incmaro di Laon, accusato dallo zio, l'altro vescovo Incmaro di Reims, si difese richiamandosi ad alcune norme false della raccolta pseudo-isidoriana nelle quali si affermava il principio che nessuno può essere punito né spogliato della sua dignità o dei suoi beni finché non sia concluso un legittimo procedimento nei suoi confronti.
A cura di Marta Cerrito
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