venerdì 20 ottobre 2017

Prima domanda del 20 ottobre 2017

Nella risposta alla domanda dovete indicare nome, cognome e numero di matricola.
La risposta deve essere inviata entro le ore 15,30 (quindi speditela qualche minuto prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it

Ecco la domanda:

Come ha interpretato la vecchia storiografia germanista la promulgazione dell'editto di Rotari? In base a quali considerazioni storiche si può criticare questa interpretazione?

Chi risponde in modo almeno sufficiente a questa domanda non sarà interrogato, all'esame, sulla parte di programma che corrisponde alle pagine 66-127 del manuale di E. Cortese, Le grandi linee...

Lezione del 18 ottobre 2017

L’ultimo aspetto del diritto longobado da analizzare è l'istituto del mundio, che caratterizza i rapporti tra il padre/marito e la donna.
Si è pensato che il suo contenuto fosse simile a quello della potestas romana; in realtà il vero contenuto del mundio è di carattere patrimoniale le cui concrete forme di applicazione si avvicinano molto più a quelle della tutela esercitata dal tutore sul pupillo che non alla soggezione della donna al padre o al marito.
Esso, dunque, si sostanzia in un potere di tutela volto a controllare i nuclei patrimoniali di considerevole entità.  Tale aspetto è particolarmente evidente nelle modalità di trasferimento dei beni della donna: essa può infatti trasferire i propri beni mediante la sua volontà, è necessario, però, il consenso del marito o del padre ai fini del perfezionamento dell’atto di trasferimento.
La prevalenza di contenuto patrimoniale è confermata dal fatto che l’istituto del mundio venne utilizzato anche per la costituzione, da parte di alcune famiglie longobarde, di un nucleo patrimoniale attorno ad enti ecclesiastici: anche in tal caso, infatti, esso veniva posto a garanzia della conservazione del patrimonio, conferendogli, mediante gli ostacoli che esso imponeva al trasferimento del nucleo patrimoniale, maggiore stabilità.
L’ottavo secolo è un’epoca caratterizzata da particolare complessità.
1. Il regno longobardo, dopo una prima fase embrionale, immediatamente successiva allo stanziamento in Italia, subì gradualmente un’evoluzione, determinata, soprattutto dalla vicinanza e dalle progressive aperture alla chiesa da parte dei re longobardi.
Liutprando, ad esempio, mostrò un atteggiamento di particolare favore nei confronti del papato e dei territori antistanti quello di Roma. La sua figura viene, inoltre, ricordata anche per aver emanato una compilazione le cui norme hanno la particolare caratteristica di essere strettamente legate al caso concreto che hanno risolto. La forte impostazione casistica è confermata dal fatto che molte delle norme contenute nella legislazione di Liutprando cominciano con la formula del “si quis” tipica delle risposte del re a domande concrete.
La situazione per i territori bizantini della penisola italiana muta, tuttavia, con l’avvento di Astolfo che, con le sue nuove campagne di espansione, minacciava l’invasione dei territori intorno Roma.
2. A complicare ulteriormente il quadro si aggiunga anche la pressione, subita da tutta l’area mediterranea, compreso il papato, di una nuova potenza: l’Islam. Ad un secolo dalla sua fondazione, agli inizi, cioè, dell’VIII sec., la potenza araba ha già conquistato tutta l’Africa settentrionale, penetrando poi nella penisola iberica, ultima enclave della romanità classica. Ad oriente, l’esercito islamico era avanzato fino alle porte di Costantinopoli, minacciandone la sopravvivenza, ma venne fermato nel 719 dall’imperatore Leone III.
Questa nuova realtà, che per molti aspetti si presentava al mondo occidentale molto diversa presentava, altresì, elementi di contatto con esso. Da un lato l’influsso religioso monoteista condivideva con le dottrine ariane e con quelle che influenzeranno l’eresia iconoclasta in oriente il concetto unitario di divinità. Un altro esempio di vicinanza ad istituti del mondo occidentale lo ritroviamo nel ruolo assistenziale svolto dalle Waqf, fondazioni islamiche, concretizzazioni dell’obbligo di fare la carità che è uno dei cinque pilastri dell’Islam.
 La rapida espansione dell’armata araba si spinse fino al nord della Francia, dove l’avanzata venne respinta dall’esercito franco di Carlo Martello a Poitiers nel 732.
3. Ultimo elemento di complessità è rappresentato dai difficili rapporti tra Roma e Bisanzio: se da un lato, infatti, il contatto tra papato ed impero era ostacolato dalla presenza, nel mediterraneo, della pirateria araba, al lato opposto, la stabilità dell’autorità papale subì le minacce derivanti dalla grande crisi religiosa che in Oriente aveva portato il vescovo di Costantinopoli e l’imperatore stesso ad abbracciare l’eresia iconoclasta. Tale situazione portò ad una rottura definitiva dei rapporti tra papato ed impero nella prima metà dell’ottavo secolo.
Considerando il quadro appena descritto, si può ora comprendere la teoria di Cortese secondo la quale la riunificazione territoriale e religiosa dell’Impero d’Occidente furono il frutto di una lenta ma sicura attività diplomatica svolta dalla Sede Pontificia che, minacciata da più fronti, ripose le speranze di rinnovazione nel più potente e cattolico dei regni barbarici: quello dei Franchi.  
L’esercito di Carlo Martello Primo Ministro (Maggiordomo di palazzo) del regno franco aveva, infatti, già dimostrato le proprie capacità respingendo l’avanzata araba oltre i Pirenei. Occorreva tuttavia che a tale potenza corrispondesse un titolo idoneo ad esercitarla legittimamente.
Fu così nel 751 che papa Zaccaria legittimò la deposizione da parte di Pipino il Breve della dinastia dei Merovingi, re dei Franchi che tuttavia non esercitavano operativamente la funzione di governo di cui erano investiti.
Giocando sull’ambiguità della propria figura di funzionario imperiale e pontefice al tempo stesso il papa attinse tuttavia alla propria autorità di vicario di Cristo per autorizzare Pipino ad esercitare la potestas che di fatto già gli era propria. Zaccaria nella decretale con cui legittimò “il colpo di stato” pose l’accento sull’importanza di una corrispondenza tra la forma e la sostanza dell’esercizio del potere (era necessario, cioè, che chi esercitava di fatto i poteri vi fosse legittimato anche formalmente).
Pipino venne, indi, unto dal vescovo, come accadeva per tutti i re franchi secondo un’antica cerimonia sacramentale risalente al tempo della conversione di Clodoveo. In quanto sancita da un sacramento l’incoronazione di Pipino era dotata del carattere dell’indissolubilità e dell’irripetibilità. Nel 754, tuttavia, papa Stefano II si recò personalmente in Francia e, nella cattedrale di Saint Denis, diede luogo ad una seconda cerimonia dell’unzione.
La tesi di Cortese riguardo questa seconda cerimonia è particolarmente convincente: in quanto funzionario dell’impero, rappresentante della maestà laica, il papa, con questa seconda unzione, sta conferendo a Pipino non già il titolo di “re dei Franchi”, ma quello di “patrizio dei romani”, offrendogli, con questa consacrazione, la carriera bizantina romana tipica cursus honorum classico che avrebbe portato al titolo imperiale.
L’idea di Cortese viene confermata anche da un documento falso: la famosa Donatio Costantini. In un tale contesto, il falso documento contenente la donazione che Costantino avrebbe fatto al Papa dei territori di Roma, quelli circostanti e“poi di tutte le isole del mare” testimonia la descritta tendenza della Chiesa ad attribuirsi un potere secolare.
Fu proprio la Chiesa, con l’ausilio della monarchia Franca, a determinare la caduta del regno barbarico dei Longobardi: nel 774 Carlo Magno riconquista l’Italia longobarda e nell’800 viene incoronato imperatore del Sacro Romano Impero d’Occidente. La ripresa dell’ideale romano e la riunificazione territoriale e religiosa dell’Impero vennero inizialmente accolte con orgoglio da Carlo Magno, il quale cominciò ad utilizzare titoli e forme tipiche dell’impero romano: non può dunque ritenersi valida la teoria secondo la quale, nonostante l’incoronazione imperiale, continuò a considerarsi un “sovrano germanico”, primo tra i suoi pari.
A cura di Chiara Casuccio

mercoledì 18 ottobre 2017

Lezione del 17 ottobre 2017


L’assetto della penisola italiana pochi anni dopo la morte di Giustiniano mutò rapidamente, con l’effetto di un ancora più radicale allontanamento dalla romanità classica.
Il territorio italiano cadde, infatti, sotto il controllo di poteri diversi: solo pochi territori rimasero – per lo più solo formalmente- sotto il dominio impero d’Oriente. La Sicilia, ad esempio, pur rimanendo per oltre un secolo il punto più strategico per l’impero bizantino all’interno del mediterraneo, venne gradualmente conquistata dagli arabi.
A Roma, inoltre, il Papa esercitava il proprio potere con una certa dose di ambiguità: rappresentante del potere imperiale a Roma, di fatto gestiva detto potere con indipendenza, traendo la propria autorità dal fatto di essere altresì il “Vescovo dei vescovi”.
Sarà proprio la Chiesa Romana – v. episodio di Gregorio I Magno- che, nel corso dei secoli, rappresenterà una delle istanze più significative di condanna dell’antichità, simbolo di un’epoca “da dimenticare”.
L’allontanamento più radicale dal mondo classico in Italia si ha, tuttavia, con l’avvento dei Longobardi. Rispetto agli altri popoli germanici, quello dei longobardi era, infatti, il popolo che meno aveva subito quel “processo di romanizzazione” a cui erano state sottoposte le tribù che da secoli popolavano le zone di confine dell’Impero. Tale condizione portò la corrente ottocentesca dei Germanisti a considerare il popolo Longobardo il “modello”, per eccellenza, dei popoli germanici, rappresentante del “germanesimo” quale categoria generale di un comune sentire giuridico.
In effetti, la lontananza dalla romanità è ben percepibile nel modo attraverso il quale si andò strutturando il regno longobardo, il quale rispecchiava un tipo di potere del “capo” che non tiene conto del concetto romano di “potere pubblico”, separato da quello privato, concentrandosi, piuttosto, nelle concrete modalità di esercizio di detto potere. La sovranità dei duces, posti a capo di altri gruppi di tribù, infatti, derivava la propria “legittimazione” dalla necessità di tali comunità di assoggettarsi ad un re-condottiero che li guidasse nelle campagne di conquista. Una volta terminate tali campagne i vari gruppi tornavano ad organizzarsi in tanti ducati autosufficienti che non necessitavano, dunque, di una giurisdizione e burocrazia centrali per il governo del popolo, confinando il ruolo del re a quello di mero “garante della pace”.
L’insediamento in Italia, sotto la guida del re Alboino, avvenne rapidamente e in maniera non omogenea: nel 569 travalicarono le Alpi settentrionali cominciando a stanziarsi in tutta la parte appenninica – includendo nella conquista molte città, come Milano, che erano state di notevole importanza per l’Impero- fino a Benevento, nell’Italia meridionale.
 Dopo i primi due re, il regno longobardo subisce un decennio di anarchia durante il quale si inaspriscono i contrasti con gli insediamenti bizantini confinanti. Solo la necessità di mantenimento della pace spingerà i vari gruppi a ricostituire la sovranità regale, trasferendo nel 584 ad Autari, quale nuovo rex, metà dei beni dei duchi dei diversi territori longobardi al fine di conferirgli le forze -economiche- necessarie all’esercizio del potere. Altro esempio questo della concretezza del potere esercitato dai re longobardi: essi derivano la propria autorità dalla concreta capacità di mantenere la pace, ossia, dalla forza.
Poche sono le fonti scritte che testimoniano la vita e le usanze di questo popolo:
- La “Historia Longobardorum” di Paolo Diacono (780);
-Documenti conservati negli archivi delle chiese, per lo più riguardanti donazioni fatte alle chiese stesse;
- una legislazione longobarda, l’Editto di Rotari.
Per quanto attiene alla legislazione essa sopraggiunge molto più tardi rispetto alla strutturazione primitiva del regno: nel 643 Rotari promulga il suo editto, dettato principalmente dalla necessità di ridurre le faide tra gruppi.
La Scuola Storica ha fornito una libera e particolarmente svincolata dal dato storico interpretazione dell’Editto di Rotari quale paradigma del complesso di istituti caratterizzanti l’antico diritto germanico, inteso quale diritto unitario.
In particolare, a differire profondamente dal diritto romano sarebbe, secondo i germanisti, l’idea di legge emergente dall’Editto: la legge germanica non sarebbe, infatti, stata, come a Roma, l’imposizione dell’imperatore-legislatore ed espressione scritta della sua volontà, ma un accordo tra il sovrano ed il popolo e dunque espressione diretta del Volksgeist.
In tale prospettiva, dunque, l’intero Editto altro non sarebbe che la “raccolta” da parte del re delle antiche consuetudini germaniche, presentate al popolo per farle approvare, in ossequio a quell’idea di collegialità e condivisione del potere che la scuola germanistica ha voluto vedere nella strutturazione del popolo longobardo.
È questa l’interpretazione romantica-ottocentesca della cerimonia, denominata Gairethinx, attraverso la quale l’Editto di Rotari venne promulgato: una cerimonia mediante la quale il popolo in armi riunito in assemblea (thinx) approvava la legge battendo le lance (gaire) sugli scudi.
Tale teoria è stata confutata mediante argomenti sottili e, talvolta, filologici.
1. Contesto storico nel quale l’Editto viene promulgato. Nel 643, infatti, Rotari stava cominciando una nuova conquista dei territori della Lunigiana: necessitava dunque del consenso di quella parte dei soldati, gli Arimanni, che rappresentava la forza principale dell’esercito.
Per garantirsi una tale coesione di forze accolse le richieste di tali gruppi militari che, logorati dalle esose richieste, da parte dei nobili più potenti, di riparazione pecuniaria alle offese ricevute, cercavano nell’Editto un contenimento e una fissazione dei criteri per la riparazione pecuniaria al fine di calmierare, una volta per tutte, le pretese di chi richiedeva grandi compensi per evitare la faida.
Ciò pare confermato dal fatto che il testo della promulgazione si rivolge in via quasi esclusiva agli Arimanni.
2. Contenuto dell’Editto. In effetti, a ben guardare, la prima metà del testo normativo è un “tariffario” di prezzi corrispondenti alle varie offese che il singolo avrebbe dovuto pagare per non incorrere nella faida. Lungi dall’essere una consuetudine, tale metodo rappresenta, tuttavia, una soluzione contingente a problemi concreti.
3. Problema della Gairethinx. L’interpretazione storica della “cerimonia delle lance” viene criticata da cortese con argomenti di tipo filologico. Egli nota come la parola thinx sia la stessa utilizzata per indicare i riti della mancipatio e dell’emancipatio degli schiavi. D’altro canto, le scienze etimologiche hanno sottolineato come la radice della parola sia la stessa che in altre lingue indicherebbe la “cosa” (thing, eng. e ding, de. ). Thinx, allora, null’altro sarebbe che un negozio formale utilizzato per trasferire cose di grande valore. L’editto stesso allora non fu un accordo tra il re ed il suo popolo ma un dono che egli concesse a quest’ultimo.
Per quanto attiene alla seconda parte dell’Editto, essa contiene norme in materia di contratti e atti negoziali, diritto di famiglia, diritto penale, ordalie e accertamento della verità.
Degna di nota è la caratteristica principale comune a tutti i contratti e atti negoziali orientati tutti nel medesimo senso di rispondere alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici e dunque qualificati da un forte formalismo “rituale”, segno esteriore della reale volontà delle parti.
V’è chi ha visto in tale formalismo una caratteristica del diritto germanico – v. teoria germanista dell’apparenza del diritto. In realtà si tratta di una trasposizione, in ambito laico, di usanze derivanti dal mondo ecclesiastico il quale molto spesso, ricorreva al rito formale e pubblico per garantire la certezza di quanto avvenuto.
Anche il processo ordalico, nonostante le critiche da parte del clero stesso, denuncia un forte condizionamento religioso: i principi del processo romano classico svaniscono di fronte ad una società in cui la presenza di Dio è avvertita come costante. Non ha più senso, in questa visione, mettere a confronto ed a contrasto due parti ma si affida l’intero processo decisionale alla volontà di Dio che si crede manifestarsi con segni esteriori.
In generale il processo longobardo è caratterizzato dalla “stilizzazione” della faida: lo scontro tra famiglie viene semplificato nel duello o affidato al giuramento delle parti e dei loro testimoni– v coniuratores: vince la controversia chi ha il maggior numero di testimoni pronti a giurare.
In tale contesto il giudice assume una funzione totalmente diversa dal magistrato romano: mero arbitro addetto al controllo del rispetto delle regole del gioco ordalico.

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martedì 17 ottobre 2017

Il calendario delle domande

Le domande che permetteranno di escludere alcune parti del programma dall'esame orale finale saranno rese pubbliche su questo blog alle ore 15:00 dei seguenti venerdì:

20 ottobre
3 novembre
17 novembre
1 dicembre
15 dicembre

Volta per volta si darà indicazione delle parti di programma esonerate con le risposte sufficienti alle domande.

Lezione del 16 ottobre 2017

Vedi anche lezione 11 ottobre 2016 con video

Con l’avvento di Giustiniano si assiste ad un’altra grande trasformazione delle fonti del diritto romano classico, culmine delle due, solo in apparenza confliggenti, tendenze alla semplificazione delle strutture societarie e giuridiche descritte nelle lezioni precedenti.
Salito al trono d’Oriente nel 527, Giustiniano si prefisse lo scopo di rinnovare l’impero mediante un triplice intervento, i cui effetti immediati si rivelarono, tuttavia, fallaci o effimeri a causa della sproporzione di tale programma rispetto ai mezzi a disposizione dell’imperatore, la cui personalità e le cui opere si collocano in una posizione di controtendenza, quasi di anacronismo.
1.Riconquista dei territori dell’impero in Occidente.
Con una serie di campagne militari Giustiniano riuscì riconquistare le terre -Africa del nord e penisola italiana - sottrattegli dai Vandali e dagli Ostrogoti di Teoderico. In Italia, in particolare, a seguito della riconquista, venne promulgata “su richiesta di papa Virgilio” la compilazione giustinianea la cui pubblicazione sicuramente contribuì alla conservazione dei manoscritti dell’epoca – v. Pandette Fiorentine. La reale applicazione del diritto giustinianeo, tuttavia, restò di fatto nulla in una società così semplificata come era quella italiana del VI secolo.
2.Pacificazione della Chiesa, nell’ottica di rafforzare il potere temporale attraverso l’unitarietà del credo e della divinità. La gerarchia piramidale religiosa riflette la complessità del mondo imperiale, con le sue magistrature facenti capo all’imperatore. Entrambe le strutture contribuiscono alla coesione delle comunità locali. Anche la politica religiosa di Giustiniano risultò, tuttavia, un grande fallimento: l’unità di credo non fu mai raggiunta, ed anzi varie eresie continuarono a confrontarsi anche dopo la morte di Giustiniano.
3. Risistemazione delle fonti del diritto e intervento nella formazione dei giuristi:
  • Giustiniano, appena salito al trono, ordina ad una commissione imperiale presieduta dal giurista Triboniano la compilazione di un Codex (529 che, sul modello di quello Teodosiano, contenesse tutte le leggi fino ad allora vigenti. La particolarità di questo lavoro risiede nel fatto che non si tratta di una compilazione mera ma di una vera e propria ri-promulgazione che intervenne sulle norme che lo esigevano rimaneggiandole e riadattandole.
  • La risoluzione di tutti gli eventi, trattati o nuovi che siano, deve trovare la propria disciplina all’interno del Codice che dunque assurge a canone di completezza di tutte le fonti vigenti. La parte più significativa di tali fonti è costituita dai rescripta, risposte dell’imperatore ai casi concreti prospettatigli, la cui soluzione era tuttavia suscettibile di applicazione analogica “a tutti i casi simili”, grazie alla spiegazione della regola generale sottesa alla risposta.
  • I lavori della commissione continuarono dando alla luce, nel 533 il Digesto, un’opera antologica divisa in 50 libri, contenente frammenti tratti dalle opere dei giureconsulti classici, riordinati sistematicamente, secondo la materia. Questo tipo di fonte fornisce il tessuto logico che tiene insieme l’apparato normativo. Permane virtualmente il paradigma leges- jura, tuttavia, il Digesto, grazie alla promulgazione, ha lo stesso valore normativo dei testi del Codex.
  • Contemporaneamente al Digesto, la commissione imperiale lavora ad un altro progetto, le Institutiones, un libro di testo per gli studenti di diritto esemplato sul modello di Gaio. Esse contengono una serie di elementi classici non più utilizzati al tempo di Giustiniano ma che sono in grado di fornire le linee guida per la comprensione di tutto il sistema.
  • Nel 534, a causa dell’ingente produzione legislativa successiva alla prima pubblicazione del Codice, ne viene pubblicata una seconda edizione denominata Codex repetitae praelectionis contenente una seconda dichiarazione di completezza. Il nuovo codice, per l’imperatore, dovrebbe essere un testo completo atto a regolare tutte le fattispecie concrete. Al tempo stesso, però, Giustiniano si dice consapevole che la natura è in eterno mutamento e che potrebbero riscontrarsi fattispecie mai disciplinate prima. La loro risoluzione, tuttavia, non potrà più essere demandata ad un procedimento logico di analogia iuris ma sarà lo stesso imperatore, lex animata in terris, a dover intervenire per disciplinare anche queste ultime.
  • La raccolta di Novellae, pertanto, racchiude tutte le leggi promulgate da Giustiniano dopo la seconda pubblicazione del Codex. È un libro aperto destinato a contenere tutta la nuova produzione legislativa, la quale, tuttavia, molto spesso non disciplina fatti realmente nuovi ma si limita a rimaneggiare istituti preesistenti.
La prima reazione al Corpus Juris Civilis fu, però, negativa. La diffusione e l’applicazione dell’enorme complesso normativo furono difficili e, di fatto, fallaci. Le citazioni del Codex e del Digesto di epoca immediatamente successiva sono scarse, pressoché nulle. Più fortuna ebbero le Novelle giacché la più gran parte di esse contiene norme sulla disciplina e l’organizzazione delle chiese e, dunque, meglio si prestò alla copiatura da parte degli enti ecclesiastici. Esse vennero addirittura semplificate e riassunte nella nota Epitome Iuliani e tradotte – parola per parola- in latino prendendo il nome di Authenticum.
In quest’epoca, inoltre, si assiste ancor più da vicino a quel fenomeno di volgarizzazione sostanziale per cui i principi del diritto romano classico divennero sempre più distinti da quelli del diritto di fatto praticato.
A cura di Chiara Casuccio