L’assetto della penisola italiana pochi
anni dopo la morte di Giustiniano mutò rapidamente, con l’effetto di un ancora
più radicale allontanamento dalla romanità classica.
Il territorio italiano cadde, infatti,
sotto il controllo di poteri diversi: solo pochi territori rimasero – per lo
più solo formalmente- sotto il dominio impero d’Oriente. La Sicilia, ad
esempio, pur rimanendo per oltre un secolo il punto più strategico per l’impero
bizantino all’interno del mediterraneo, venne gradualmente conquistata dagli
arabi.
A Roma, inoltre, il Papa esercitava il
proprio potere con una certa dose di ambiguità: rappresentante del potere
imperiale a Roma, di fatto gestiva detto potere con indipendenza, traendo la
propria autorità dal fatto di essere altresì il “Vescovo dei vescovi”.
Sarà proprio la Chiesa Romana – v.
episodio di Gregorio I Magno- che, nel corso dei secoli, rappresenterà una
delle istanze più significative di condanna dell’antichità, simbolo di un’epoca
“da dimenticare”.
L’allontanamento più radicale dal mondo
classico in Italia si ha, tuttavia, con l’avvento dei Longobardi. Rispetto agli
altri popoli germanici, quello dei longobardi era, infatti, il popolo che meno
aveva subito quel “processo di romanizzazione” a cui erano state sottoposte le
tribù che da secoli popolavano le zone di confine dell’Impero. Tale condizione
portò la corrente ottocentesca dei Germanisti a considerare il popolo
Longobardo il “modello”, per eccellenza, dei popoli germanici, rappresentante
del “germanesimo” quale categoria generale di un comune sentire giuridico.
In effetti, la lontananza dalla romanità
è ben percepibile nel modo attraverso il quale si andò strutturando il regno
longobardo, il quale rispecchiava un tipo di potere del “capo” che non tiene
conto del concetto romano di “potere pubblico”, separato da quello privato,
concentrandosi, piuttosto, nelle concrete modalità di esercizio di detto
potere. La sovranità dei duces, posti
a capo di altri gruppi di tribù, infatti, derivava la propria “legittimazione”
dalla necessità di tali comunità di assoggettarsi ad un re-condottiero che li
guidasse nelle campagne di conquista. Una volta terminate tali campagne i vari
gruppi tornavano ad organizzarsi in tanti ducati autosufficienti che non
necessitavano, dunque, di una giurisdizione e burocrazia centrali per il
governo del popolo, confinando il ruolo del re a quello di mero “garante della
pace”.
L’insediamento in Italia, sotto la guida
del re Alboino, avvenne rapidamente
e in maniera non omogenea: nel 569 travalicarono le Alpi settentrionali
cominciando a stanziarsi in tutta la parte appenninica – includendo nella
conquista molte città, come Milano, che erano state di notevole importanza per
l’Impero- fino a Benevento, nell’Italia meridionale.
Dopo i primi due re, il regno longobardo
subisce un decennio di anarchia durante il quale si inaspriscono i contrasti
con gli insediamenti bizantini confinanti. Solo la necessità di mantenimento
della pace spingerà i vari gruppi a ricostituire la sovranità regale,
trasferendo nel 584 ad Autari, quale nuovo rex, metà dei beni dei duchi dei
diversi territori longobardi al fine di conferirgli le forze -economiche-
necessarie all’esercizio del potere. Altro esempio questo della concretezza del
potere esercitato dai re longobardi: essi derivano la propria autorità dalla
concreta capacità di mantenere la pace, ossia, dalla forza.
Poche sono le fonti scritte che
testimoniano la vita e le usanze di questo popolo:
- La “Historia Longobardorum” di Paolo
Diacono (780);
-Documenti conservati negli archivi
delle chiese, per lo più riguardanti donazioni fatte alle chiese stesse;
- una legislazione longobarda, l’Editto di Rotari.
Per quanto attiene alla legislazione
essa sopraggiunge molto più tardi rispetto alla strutturazione primitiva del
regno: nel 643 Rotari promulga il
suo editto, dettato principalmente dalla necessità di ridurre le faide tra
gruppi.
La Scuola Storica ha fornito una libera
e particolarmente svincolata dal dato storico interpretazione dell’Editto di
Rotari quale paradigma del complesso di istituti caratterizzanti l’antico
diritto germanico, inteso quale diritto unitario.
In particolare, a differire
profondamente dal diritto romano sarebbe, secondo i germanisti, l’idea di legge
emergente dall’Editto: la legge germanica non sarebbe, infatti, stata, come a
Roma, l’imposizione dell’imperatore-legislatore ed espressione scritta della
sua volontà, ma un accordo tra il sovrano ed il popolo e dunque espressione
diretta del Volksgeist.
In tale prospettiva, dunque, l’intero
Editto altro non sarebbe che la “raccolta” da parte del re delle antiche
consuetudini germaniche, presentate al popolo per farle approvare, in ossequio
a quell’idea di collegialità e condivisione del potere che la scuola
germanistica ha voluto vedere nella strutturazione del popolo longobardo.
È questa l’interpretazione
romantica-ottocentesca della cerimonia, denominata Gairethinx, attraverso la quale l’Editto di Rotari venne
promulgato: una cerimonia mediante la quale il popolo in armi riunito in
assemblea (thinx) approvava la legge battendo le lance (gaire) sugli scudi.
Tale teoria è stata confutata mediante
argomenti sottili e, talvolta, filologici.
1. Contesto
storico nel quale l’Editto viene promulgato. Nel 643, infatti, Rotari
stava cominciando una nuova conquista dei territori della Lunigiana:
necessitava dunque del consenso di quella parte dei soldati, gli Arimanni, che
rappresentava la forza principale dell’esercito.
Per garantirsi una tale coesione di
forze accolse le richieste di tali gruppi militari che, logorati dalle esose
richieste, da parte dei nobili più potenti, di riparazione pecuniaria alle
offese ricevute, cercavano nell’Editto un contenimento e una fissazione dei
criteri per la riparazione pecuniaria al fine di calmierare, una volta per
tutte, le pretese di chi richiedeva grandi compensi per evitare la faida.
Ciò pare confermato dal fatto che il
testo della promulgazione si rivolge in via quasi esclusiva agli Arimanni.
2. Contenuto
dell’Editto. In effetti, a ben guardare, la prima metà del testo
normativo è un “tariffario” di prezzi corrispondenti alle varie offese che il
singolo avrebbe dovuto pagare per non incorrere nella faida. Lungi dall’essere
una consuetudine, tale metodo rappresenta, tuttavia, una soluzione contingente
a problemi concreti.
3. Problema
della Gairethinx. L’interpretazione storica della “cerimonia delle
lance” viene criticata da cortese con argomenti di tipo filologico. Egli nota
come la parola thinx sia la stessa utilizzata per indicare i riti della mancipatio e dell’emancipatio degli schiavi. D’altro canto, le scienze etimologiche
hanno sottolineato come la radice della parola sia la stessa che in altre
lingue indicherebbe la “cosa” (thing, eng. e ding, de. ). Thinx, allora,
null’altro sarebbe che un negozio formale utilizzato per trasferire cose di
grande valore. L’editto stesso allora non fu un accordo tra il re ed il suo
popolo ma un dono che egli concesse a quest’ultimo.
Per quanto attiene alla seconda parte
dell’Editto, essa contiene norme in materia di contratti e atti negoziali,
diritto di famiglia, diritto penale, ordalie e accertamento della verità.
Degna di nota è la caratteristica
principale comune a tutti i contratti e atti negoziali orientati tutti nel
medesimo senso di rispondere alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici e
dunque qualificati da un forte formalismo “rituale”, segno esteriore della
reale volontà delle parti.
V’è chi ha visto in tale formalismo una
caratteristica del diritto germanico – v. teoria
germanista dell’apparenza del diritto. In realtà si tratta di una
trasposizione, in ambito laico, di usanze derivanti dal mondo ecclesiastico il
quale molto spesso, ricorreva al rito formale e pubblico per garantire la
certezza di quanto avvenuto.
Anche il processo ordalico, nonostante
le critiche da parte del clero stesso, denuncia un forte condizionamento
religioso: i principi del processo romano classico svaniscono di fronte ad una
società in cui la presenza di Dio è avvertita come costante. Non ha più senso,
in questa visione, mettere a confronto ed a contrasto due parti ma si affida
l’intero processo decisionale alla volontà di Dio che si crede manifestarsi con
segni esteriori.
In generale il processo longobardo è
caratterizzato dalla “stilizzazione” della faida: lo scontro tra famiglie viene
semplificato nel duello o affidato al giuramento delle parti e dei loro
testimoni– v coniuratores: vince la
controversia chi ha il maggior numero di testimoni pronti a giurare.
In tale contesto il giudice assume una
funzione totalmente diversa dal magistrato romano: mero arbitro addetto al controllo
del rispetto delle regole del gioco ordalico.
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