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venerdì 15 dicembre 2017
Quinta domanda
Nella risposta alla domanda dovete indicare nome, cognome e numero di matricola.
La risposta deve pervenire entro le ore 15,45 (quindi speditela qualche minuto prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it
Rammentate che c'è un limite di caratteri fissato a 1700 per la vostra risposta.
Ecco la domanda:
Chi risponde in modo almeno sufficiente a questa domanda non sarà interrogato, all'esame, sulla parte di programma che corrisponde alle pagine 271-356 del manuale Tempi del diritto.
La risposta deve pervenire entro le ore 15,45 (quindi speditela qualche minuto prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it
Rammentate che c'è un limite di caratteri fissato a 1700 per la vostra risposta.
Ecco la domanda:
Nell'Ottocento la scienza del diritto assume caratteri diversi in Francia e in Germania. Descrivete brevemente le caratteristiche delle due scuole ed evidenziate le differenze che le distinguono.
Chi risponde in modo almeno sufficiente a questa domanda non sarà interrogato, all'esame, sulla parte di programma che corrisponde alle pagine 271-356 del manuale Tempi del diritto.
giovedì 14 dicembre 2017
Lezione del 13 dicembre 2017
L’ottocento è il secolo delle grandi
contrapposizioni. Esso è in primo luogo l’età del positivismo, una corrente di
pensiero caratterizzata da un approccio metodologico allo studio dei fenomeni
-scientifici, storici e finanche giuridici- incentrata sull’ analisi obiettiva
e “scientifica” della natura di essi. Anche nel diritto la corrente positivista
influenzò la scienza giuridica determinando una sorta di dipendenza della
costruzione astratta dal dato positivo, che nel diritto è la legge – nonostante
anche quest’ultima sia una creazione artificiale -.
D’altro canto l’ottocento è anche l’età del
romanticismo, del sentimento contrapposto alla rigida razionalità dell’età dei
lumi, dell’appartenenza alla nazione e delle tradizioni.
In campo giuridico questa tensione si
traduce nella contrapposizione tra dato positivo -leggi e codificazioni- e giuristi,
interpreti di un’identità nazionale giuridica. La scienza ottocentesca del
diritto conobbe due grandi correnti che influenzarono lo studio del diritto di
tutta l’Europa e che sono figure sintomatiche del diverso approccio allo studio
dei fenomeni giuridici la scienza
giuridica francese e quella tedesca.
Esse ebbero una grande influenza anche in Italia.
La scienza giuridica francese, nota come
Scuola dell’esegesi, risente della
centralità e della funzione affidate da Napoleone al proprio codice, strumento
per la sistemazione di tutto il diritto privato in modo chiaro e comprensibile
da tutta la nazione. In tale prospettiva, il piccolo codice dalla chiarezza
quasi “cartesiana”, espressione concreta dell’utopia illuminista di
sistemazione del diritto secondo schemi razionali, doveva essere da sé
sufficiente alla spiegazione del fenomeno giuridico, e lo spazio per
l’interpretazione del dato letterale pressoché nullo. Lo studio teorico del
diritto divenne, per volontà dell’imperatore stesso, un’esegesi del
codice: un commentario secco al testo, una nuda spiegazione del contenuto degli
articoli della norma, senza la possibilità per il giurista – così come per il
magistrato- di interpretarli sistematicamente; l’intervento interpretativo del
giurista, nella visione illuminista, era ridotto al minimo poiché la chiarezza
della legislazione non lascia spazi ad interpretazione. Napoleone voleva, infatti, che il suo codice fosse autosufficiente
e portò all’estremo il positivismo nato in ambito rivoluzionario, arrivando a
negare l’autorevolezza giuridica dei concetti di derivazione tradizionale o
culturale non fissati dalla legge.
Il modello dell’insegnamento ora illustrato si
sviluppò nella Scuola dell’esegesi
attraverso la tecnica del commento, fino a distaccarsi dal positivismo “puro”
introducendo uno spazio, seppur delimitato nei suoi confini, per
l’interpretazione del giurista e per la storicizzazione del dato normativo.
Gli esegeti della generazione post-restaurazione tentarono, infatti, di
ricostruire le radici storiche di ogni articolo del Codice per giustificarne la
vigenza, soprattutto alla luce della restaurazione e dell’antico regime. In
tale prospettiva il codice rimaneva vigente, nonostante avesse tratto la
propria emanazione da soggetti “rivoluzionari”, poiché incarnava la tradizione
della società di antico regime, basata soprattutto sul diritto romano. Tra i
più importanti esponenti della scuola esegetica di seconda generazione
ricordiamo Demolombe. Altro esempio
del tentativo di collegare il diritto codificato alla tradizione di antico
regime è Merlin il quale, vissuto “a
cavallo” della rivoluzione e della restaurazione si dedicò alla redazione un’enciclopedia
del diritto che conobbe molteplici revisioni. Dapprima, in tempi
pre-rivoluzionari essa consistette in un dizionario del diritto dell’antico
regime, successivamente subì vari riadattamenti, mediante l’introduzione delle
novità subentrate con la rivoluzione e dell’approccio casistico. A seguito
della restaurazione, poi, Merlin revisionò tutte le voci della sua enciclopedia
alla luce di tutti gli articoli del codice, tentando di individuare il collegamento
necessario tra la razionalizzazione del codice e la tradizione precedente.
Detta scuola ebbe un grande impatto soprattutto nei
paesi che avevano optato per la codificazione.
Nell’ottocento anche la scienza giuridica italiana contribuì allo studio
del diritto ma rimase sempre legata in rapporto di continuo dialogo a quella
francese e tedesca. Tale rapporto si espresse soprattutto nelle grandi opere di
traduzione della letteratura straniera.
Fu, tuttavia, la Scuola tedesca a detenere il primato indiscusso nello
studio del diritto di matrice ottocentesca. Essa si sviluppò in un contesto
culturale di grande crescita in tutti i campi delle arti e del sapere.
La scelta di Savigny per la storia aveva
esplicitato, anche per il diritto, quell’attaccamento romantico al radicamento
delle tradizioni nel popolo. Quello della Scuola storica è, tuttavia, un romanticismo,
per così dire, “classico”, poiché il diritto scelto da Savigny quale base per
la definizione in chiave storica degli istituti moderni è il diritto romano,
ricostruito alla luce di una sua “germanizzazione”. A partire da tale ricostruzione
della storia del diritto romano quale frutto dei popoli germanici, perseguita
scientificamente da Savigny fin dalla pubblicazione della sua opera “Storia del
diritto romano nel medioevo” nel 1815, la Scuola storica pose al centro della
propria ricerca il problema dell’interpretazione del testo di Giustiniano nel
corso del medioevo, età simbolo del trionfo del germanesimo, passaggio prezioso
per tramandare il diritto romano alla società moderna. Tale scelta ebbe un
chiaro indirizzo politico: il perseguimento dell’unità culturale e giuridica
alla luce della constatazione della frammentazione politica che aveva suscitato
nell’élite romantica tedesca un bisogno di identificazione molto forte.
Tutto ciò rappresenta la fondamentale
premessa all’opera più matura di von Savigny: System des heutigen
römischen Rechts, letteralmente “il sistema del diritto romano attuale”, il
diritto romano, dopo una minuziosa ricerca delle fonti necessarie a
ricostruirne il volto originario, venne riproposto attualizzato come diritto
vigente. La nuova scienza romanistica riorganizzò i concetti del diritto romano estraendo quelli più importanti e
ponendoli alla base di un nuovo sistema di diritto civile. Il diritto tedesco
venne così affidato non alla codificazione ma alla scienza giuridica, intenta a
rielaborare i contenuti del diritto romano mediante la costruzione di un enorme
castello di concetti portanti -Begriffe- e di categorie generali del
diritto sotto le quali sussumere i concetti particolari.
Savigny fu un grande caposcuola, il suo
pensiero si diffuse rapidamente in tutta Europa grazie ai progressi della comunicazione
scientifica, per mezzo di una fitta rete epistolare e le nuove riviste
specializzate, e alla grande diffusione della lingua tedesca come la lingua
della cultura.
Tra i suoi tanti allievi è da ricordare Puchta, considerato il fondatore della cd Pandettistica, la branca
della scuola storica che, sulla spinta della sistematica di Donello, si occupò
di riorganizzare i concetti delle norme delle Pandette per inventarne di nuovi
e più generali, come quello del “negozio giuridico” – cfr Gluck, “usus modernus pandectarum”. Tale scuola
propose una rilettura del Digesto in modo riordinato,
in linea con la tradizione razionalistica e rappresenta la corrente
assolutamente dominante fino all’età contemporanea. Il più importante dei
pandettisti è Windscheid.
Tuttavia, questa tendenza alla
prevalenza del diritto romano è sfidata da un’altra corrente della stessa Scuola
storica tedesca: i germanisti.
Sia l’impianto borghese dei codici
moderni, sia l’elaborazione del diritto romano della pandettistica, portatore
dei principi della libera volontà dei soggetti e dell’accumulazione
capitalistica, avevano, infatti, avuto come risultato un forte individualismo
che, se da un lato permetteva il progresso economico e la parità di tutti i
soggetti dinanzi allo Stato, dal punto di vista economico-sostanziale creava
forti iniquità per tutti i soggetti che, seppur affrancati dai vincoli, non
avevano la concreta possibilità di avanzamento. La logica strettamente
individualista, dunque, aveva provocato effetti socialmente inaccettabili.
I germanisti, pertanto, cominciarono ad
entrare in conflitto la vecchia scienza del diritto, che aveva ad oggetto una
società del tutto astratta e diversa da quella reale, sostenendo che i principi
di diritto romano proposti da Savigny quali fondanti la moderna società altro
non erano se non una indebita ingerenza dello spirito “straniero”, su quello
germanico. Nel mettere, indi, in luce la prevalenza dello spirito del popolo
sul diritto romano, la nuova corrente si concentrò nello studio degli aspetti
non toccati dal Digesto come il diritto pubblico e il diritto commerciale,
sottolineandone la derivazione tedesca. Tra i germanisti di rilievo ricordiamo Beseler, Gierke. Romanista, ma attento alle posizioni della parallela scuola
dei germanisti fu Jhering, cui si
deve una tra le critiche più corrosive alla Pandettistica.
Anche in Italia, all’alba della fine
delle guerre di Indipendeza si cominciò a lavorare al codice unitario e ad una
unificazione giuridica. Per quanto attiene alla Costituzione si optò per
l’adattamento dello Statuto Albertino che da “rigido” passò, in via
consuetudinaria, a “flessibile”, potendo ora essere modificato anche tramite
legge ordinaria.
Per il codice il problema era
rappresentato dalla diversità di esperienze giuridiche degli stati italiani
preunitari problema. Inizialmente si lavorò ad un progetto di ampliamento del
cc piemontese del 1837, progetto che a seguito delle molte resistenze che
vedevano in esso un’imposizione forzata fallì lasciando spazio alla creazione
ex novo di un codice sul modello di quello napoleonico, che aveva fornito la
base di tutti i codici preunitari, ma introducendo, tuttavia, anche elementi
estranei che lo “italianizzanizzarono”. Esso venne influenzato, ad esempio, dal
codice austriaco che determinò un depotenziamento figura paterna nel diritto di
famiglia, e dal codice napoletano con le sue persone giuridiche, estranee al diritto
francese rivoluzionario e poi al Codice Napoleone. Questa grande officina portò
all’emanazione del codice del 65 non rimasto avulso da critiche- v. Sclopis.
A cura di Chiara Casuccio
martedì 12 dicembre 2017
Lezione del 12 dicembre 2017
Con la sconfitta di Napoleone nel 1814 si
apre la fase della restaurazione. Tale evento determina una grande trasformazione
per tutta l’Europa, in considerazione anche della grande espansione che aveva
raggiunto l’impero napoleonico. La restaurazione dell’ordine politico dell’Ancien régime non poteva certo
permettere il permanere di molte innovazioni introdotte dalla Rivoluzione
francese e consacrate nel Codice di Napoleone che fu vigente anche nei
territori conquistati dalle armate francesi in Europa continentale.
Tuttavia, dal punto di vista giuridico,
permasero anche molti elementi frutto della parentesi rivoluzionaria europea,
primo fra tutti le costituzioni. Esse tuttavia, come la Charte della Francia
restaurata o lo Statuto albertino del 1848 conservarono un elemento di
differenza rispetto alle costituzioni rivoluzionarie: non erano enunciazioni di
diritti emanate da un potere costituente ad hoc ma erano il frutto di una
concessione del sovrano al proprio popolo, il quale sceglieva, consapevolmente
di autolimitarsi. La ragione della permanenza di queste costituzioni nonostante
la restaurazione è insita nella irrequietezza che caratterizza il XIX sec.,
attraversato sia da istanze di tipo reazionario tendenti al ritorno allo status
prerivoluzionario, sia da istanze progressiste dirette al perfezionamento delle
novità derivate dalla rivoluzione. Le istanze romantico- reazionarie portarono,
ad esempio, ad una rinnovata promozione della spiritualità in opposizione alla
compressione illuministica della funzione pubblica della religione, relegata
dalla rivoluzione francese a mero elemento interiore dell’individuo. In
generale, si riscontrano, nella stessa ottica reazionaria, istanze nostalgiche
nei confronti del medioevo e dell’antico regime.
L’Europa ottocentesca conobbe, al lato
opposto, vari momenti insurrezionali – moti del 1820 e 21; 30 e 31, del 1848-
caratterizzati dalla forte avversione alla restaurazione, dal ruolo centrale
del popolo nella vita collettiva e da un utopismo verso un assetto nuovo, che
vede nella rivoluzione francese il passo fondamentale verso il progresso. Di
fondo vi è l’idea che i popoli post rivoluzionari hanno acquisito la
consapevolezza di un possibile diverso ordine dello stato. Durante detto secolo
comincia, infatti, ad affacciarsi sul panorama europeo il pensiero socialista,
concretizzatosi nella pubblicazione del manifesto del partito socialista del
1848.
Uno dei problemi al centro del dibattito
ottocentesco è quello relativo al potere costituente, al soggetto nelle cui
mani detto potere viene concentrato e delle possibilità di modifica o
sospensione dei diritti con esso sanciti. Secondo Carl Schmitt ad esempio, il soggetto posto a chiusura dell’ordinamento è proprio
quello nelle cui mani viene concentrata la facoltà di decidere circa lo stato
d’assedio, giacché esso è, in definitiva, sovraordinato rispetto alla
costituzione stessa, avendo il potere di sospenderla nei casi di necessità.
L’ Ottocento è un “secolo fortemente
giuridico”. Le dottrine e le esperienze ottocentesche impregneranno di sé il
pensiero giuridico contemporaneo determinandone lo sviluppo.
La comune esperienza è rappresentata
dalla codificazione. L’atteggiamento nei confronti del codice è tuttavia
differente a seconda del paese di attuazione, potendosi registrare una
esperienza parallela rispetto al modello improntato sul codice napoleonico.
Nell’ impero asburgico, ad esempio, il
codice “borghese” del 1811 risentì al tempo stesso della mancata esperienza
della rivoluzione, che era stata fondamentale per l’abolizione delle differenze
di ceto e la radicale unificazione della società, e dell’assolutismo
illuminato, ispirato dalle dottrine kantiane.
La Germania, invece, prima
dell’adozione del BGB nel 1900, operò una scelta diversa. Nel 1814
essa si sottopose ad un acceso dibattito sulla convenienza o meno di adottare
una codificazione. V’è anche da considerare il connesso problema che, in
generale, si pose alla scienza giuridica dell’Ottocento, intenta ad indagare
circa il ruolo più o meno creativo del giurista e l’essenzialità o meno del suo
operato ai fini della completezza del sistema. In questo contesto, si
contrapposero le soluzioni di due grandi giuristi dell’epoca: Thibaut e
Savigny. Thibaut propose una codificazione unitaria per tutta
la nazione tedesca: voleva creare, secondo il modello universalista
illuminista, mediante un’operazione razionale un’infrastruttura giuridica
valida per tutti i principati tedeschi, con l’obiettivo eminentemente economico
di facilitarne gli scambi commerciali. Egli era convinto, da buon romantico e
nazionalista, della germanicità unitaria di tutti i popoli tedeschi. Dal canto
suo, von Savigny riteneva che la giuridicità di una norma non
dovesse derivare dalla razionalità o dall’imposizione formale di una legge ma
dallo spirito del popolo stesso – nel senso peculiare di élite culturale
educata alla consapevolezza storica-, che riconosceva una regola come giuridica
e dunque vincolante. In altre parole, il diritto vigente, secondo Svigny,
sarebbe dovuto derivare dalle visioni del mondo del diritto stratificate nella
coscienza del giurista il quale doveva osservare come i diversi giuristi
avevano commentato e applicato gli istituti del diritto romano. Ciò che avrebbe
accomunato i popoli tedeschi, dunque, non sarebbe stata l’imposizione della
razionalità di un sistema artificiale ma la loro tradizione comune, la storia.
Savigny aveva maturato la propria
posizione a partire dalla sua prima pubblicazione sul possesso nel diritto
romano nel 1803. Nel 1814, anno della polemica, egli ripropose la sua
metodologia di studio dell’istituto del possesso attraverso l’osservazione di
come esso era stato utilizzato dai giuristi romani e, successivamente,
commentato dai giuristi medievali, ritenendola applicabile a tutti gli
istituti. L’identità giuridica dei popoli risiedeva nella storia ed in essa
andava ricercata. In questa ricerca, la scuola storica di Savigny si
“appropriò” del diritto romano, usando le fonti del diritto civile antico per
costruire un diritto civile tedesco. Il diritto romano, dopo una minuziosa
ricerca delle fonti necessarie a ricostruirne il volto originario, venne
riproposto attualizzato come diritto vigente. La nuova scienza romanistica
riorganizzò i concetti del diritto romano estraendo quelli più importanti e
ponendoli alla base di un nuovo sistema di diritto civile. Così, sul piano
culturale, l’unità tedesca si realizza molto prima dell’unificazione politica.
In Italia la situazione si presenta
oltremodo frazionata: molti stati mantennero il modello del codice napoleonico:
il Regno delle due Sicilie promulgò il proprio codice già nel 1819 e quello di
Sabaudo nel 1837; rimasero avulsi da tale sistema il Granducato di Toscana,
influenzato dal dibattito tedesco, e il ducato di Milano, parte dell’impero
asburgico.
Complessivamente si può, tuttavia,
affermare che quasi tutta l’Europa continentale operò la scelta per un diritto
codificato, un diritto, cioè, razionalmente semplificato che aveva
abbandonato il complesso sistema del diritto comune.
Il codice venne, però, adattato alla
condizione politica e culturale dei diversi stati in cui venne adottato. Nel
Regno di Napoli, ad es., si abolì il divorzio e tornò in auge la preminenza del
potere patriarcale nel campo del diritto di famiglia e successorio.
A
cura di Chiara Casuccio
Lezione dell'11 dicembre 2017
Verso la fine del XVIII secolo si
assiste ad un passaggio fondamentale nella storia istituzionale moderna. Nato
dal fermento ideologico e storico, esso segnerà la più grande cesura rispetto
ai sistemi di antico regime: la creazione di una serie di costituzioni scritte,
sistemi, cioè, di norme sovraordinate alla legge e preposte al funzionamento
degli stati nazionali.
Vi sono tre grandi tappe della creazione
costituzionale:
-
La Dichiarazione di indipendenza americana del 1776
-
La Costituzione americana del 1787
-
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo francese 1789.
Nonostante gli evidenti tratti comuni
costituiti dall’oggetto delle moderne costituzioni -la costituzione di uno
stato di diritto mediante l’imposizione di limiti al potere dello Stato e l’istituzione
di maggiori garanzie per i cittadini-, il modello anglosassone di costituzione
si atteggiò, tuttavia, in modo parzialmente diverso rispetto al modello
costituzionale continentale. Tale diversità è dettata in primo luogo da un
diverso substrato ideologico e culturale: da un lato, il pragmatismo
anglosassone teso alla risoluzione di problemi concreti, come quello primario
dell’imposizione fiscale, rese la costituzione americana un modello di
costituzione fortemente “individualista”, rifiutando l’idea di uno
Stato-regolatore della società e dell’economia; al lato opposto, il diverso
concetto di benessere, legato alle teorizzazioni della moderna scienza
economica -v. A. Smith- portò alla statuizione di principi differenti da quelli
enfatizzati durante la rivoluzione francese.
Secondo il modello anglosassone,
infatti, la ricchezza delle nazioni non è centrata sulla proprietà, come nella
codificazione francese, di poco successiva, ma sull’efficienza degli scambio e
della circolazione del credito: in tale ottica di forte fiducia nella
intrinseca capacità degli individui di crescita economica, la costituzione
americana e, prima ancora, la Dichiarazione di indipendenza, esaltarono la
libertà dei commerci e quella individuale nel perseguimento dei propri interessi
riducendo al massimo la possibilità dello Stato di intervenire nella
regolazione del settore.
A differire dalla nozione “tradizionale”
non era soltanto l’idea di benessere, ma la stessa idea di proprietà: nel
sistema anglosassone essa non rappresenta un potere assoluto sulla cosa, la è
un diritto reale fortemente frazionato, limitato da elementi temporali o da
diritti altrui sulla cosa.
Un altro elemento di differenza rispetto
al modello francese, legato al pragmatismo anglosassone e all’idea di Stato
fortemente individualista, è la centralità della questione dell’imposizione
fiscale e della legittimità delle norme impositive costituite senza la
partecipazione dei rappresentanti dei diversi ceti della società.
In entrambe le esperienze, americana e
francese, inoltre, si pose come centrale il problema della separazione dei
poteri, elemento indispensabile per evitare che il potere si converta in
dispotismo. Il modello ideale di stato era rappresentato, secondo le
teorizzazioni franco-rivoluzionarie, dall’Inghilterra, il cui equilibrio nella
separazione dei poteri era stato già evidenziato dal filosofo J. Locke. Il
modello monarchico di identificazione nazionale venne, tuttavia, meno nel caso
americano e, in un certo periodo, anche in quello francese.
Nonostante il forte radicamento delle
dottrine illuministe in Francia, il monarca contro cui avvenne la rivoluzione
fu un monarca molto diverso da quello teorizzato sul modello inglese. Luigi XIV
e i suoi predecessori, infatti, non si lasciarono mai affascinare dal pensiero
illuminista traducendolo in concreto modello di governo: prova ne è che la
convocazione degli Stati generali, le assemblee rappresentative dei diversi
stati sociali, non fondate sul modello democratico ma su quello medievale della
corporazione, ai tempi della rivoluzione, non avveniva da oltre 150 anni –
1614-. Solo nel 1789, per la prima volta dopo decenni di inattività vennero
riconvocati gli Stati generali.
Il peso ormai
insopportabile del sistema di vincoli alle persone ed alle cose imposto
dall’antico regime, ed il crescente fermento sociale sono testimoniati da una
serie di documenti prodotti dalle assemblee locali, i cd cahiers des
doléances, Essi sono, in altre parole, le
critiche sollevate dalla nazione stessa contro lo stato, e tutte le
manifestazioni del potere signorile feudale che determinavano la costrizione
dei ceti meno abbienti e l’inalterabilità della loro condizione, l’inefficienza
della giustizia, la tassazione troppo alta etc.
Il momento di rottura, che portò alla
presa della Bastiglia il 14 luglio 1789, è rappresentato dalla chiusura
definitiva degli Stati generali da parte del re. L’assetto costituzionale che
si stabilisce con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto, è tipicamente
rousseauiano: vennero distrutti tutti i simboli dell’antico regime e una grande
assemblea nazionale, sottratta alla possibilità di scioglimento da parte del
re, venne posta a controllo di tutte le attività di governo, esercitando tale
potere mediante la legge; il governo ed i magistrati attuavano, così, la legge
alla stregua di macchine, senza avere la possibilità di incidervi.
Con la legge si perseguiva ogni tipo di intervento del potere del popolo sulla
sua propria nazione; qualsiasi attività di governo e gestione doveva essere enunciata
mediante lo strumento della legge che le autorizzava. L’attività di governo non
autorizzata era illegittima ed in quanto tale doveva essere soppressa;
l’esercizio del potere giudiziario doveva consistere nella meccanica
applicazione della legge senza possibilità di interpretazione, estensione,
ragionamento analogico e, nei casi dubbi, il magistrato doveva rivolgersi
direttamente all’Assemblea per ottenere un’interpretazione autentica della
norma - référé législatif.
Il 4 agosto 1789 erano, inoltre, stati
aboliti tutti i diritti feudali senza indennizzo. Insieme al principio della
legge quale espressione della volontà popolare vennero, dunque, affermati con
forza i due diritti fondamentali compressi dal sistema dell’antico regime:
la libertà e la proprietà.
La prima fase rivoluzionaria è, dunque,
una fase fortemente istituzionale in cui la legge, insieme alle procedure e al
processo viene posta a tutela delle libertà individuali: esse rappresentano,
infatti, la necessaria intermediazione tra potere e individuo. In particolare,
la legge è il modo formale con cui lo Stato predetermina le regole che nemmeno
lo Stato stesso può violare.
Tuttavia, la preminenza del potere
legislativo su quello giudiziario ed esecutivo, determinando, di fatto, uno
squilibrio tra poteri, produsse, ben presto un cortocircuito: l’assolutezza del
potere popolare degenerò nel cd Periodo giacobino del Terrore -1793
Robespierre-. Esso veniva esercitato senza la necessaria intermediazione della
legge e delle procedure e questo comportò che moltissimi cittadini vennero
processati in base al sospetto di aver ordinato un complotto contro la nazione.
Le istituzioni si autolegittimavano, così, attraverso la persecuzione dei
complotti creando unione e approvazione mediante la creazione artificiale di
nemici comuni.
La situazione subì una decisa inversione
di marcia a seguito del colpo di stato di Napoleone e la restaurazione della
forma monarchica. Nel 1804 egli divenne imperatore ma il fermento
rivoluzionario non venne abbandonato: esso si tradusse, nello stesso anno,
nella codificazione, depositaria dei concetti di proprietà e libertà, figli
della rivoluzione stessa.
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