venerdì 15 dicembre 2017

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Quinta domanda

Nella risposta alla domanda dovete indicare nome, cognome e numero di matricola.
La risposta deve pervenire entro le ore 15,45 (quindi speditela qualche minuto prima) all'indirizzo
storiadiritto.conte@uniroma3.it

Rammentate che c'è un limite di caratteri fissato a 1700 per la vostra risposta.

Ecco la domanda:


Nell'Ottocento la scienza del diritto assume caratteri diversi in Francia e in Germania. Descrivete brevemente le caratteristiche delle due scuole ed evidenziate le differenze che le distinguono.

Chi risponde in modo almeno sufficiente a questa domanda non sarà interrogato, all'esame, sulla parte di programma che corrisponde alle pagine 271-356 del manuale Tempi del diritto.

giovedì 14 dicembre 2017

Lezione del 13 dicembre 2017

L’ottocento è il secolo delle grandi contrapposizioni. Esso è in primo luogo l’età del positivismo, una corrente di pensiero caratterizzata da un approccio metodologico allo studio dei fenomeni -scientifici, storici e finanche giuridici- incentrata sull’ analisi obiettiva e “scientifica” della natura di essi. Anche nel diritto la corrente positivista influenzò la scienza giuridica determinando una sorta di dipendenza della costruzione astratta dal dato positivo, che nel diritto è la legge – nonostante anche quest’ultima sia una creazione artificiale -.
D’altro canto l’ottocento è anche l’età del romanticismo, del sentimento contrapposto alla rigida razionalità dell’età dei lumi, dell’appartenenza alla nazione e delle tradizioni.
In campo giuridico questa tensione si traduce nella contrapposizione tra dato positivo -leggi e codificazioni- e giuristi, interpreti di un’identità nazionale giuridica. La scienza ottocentesca del diritto conobbe due grandi correnti che influenzarono lo studio del diritto di tutta l’Europa e che sono figure sintomatiche del diverso approccio allo studio dei fenomeni giuridici la scienza giuridica francese e quella tedesca. Esse ebbero una grande influenza anche in Italia.
La scienza giuridica francese, nota come Scuola dell’esegesi, risente della centralità e della funzione affidate da Napoleone al proprio codice, strumento per la sistemazione di tutto il diritto privato in modo chiaro e comprensibile da tutta la nazione. In tale prospettiva, il piccolo codice dalla chiarezza quasi “cartesiana”, espressione concreta dell’utopia illuminista di sistemazione del diritto secondo schemi razionali, doveva essere da sé sufficiente alla spiegazione del fenomeno giuridico, e lo spazio per l’interpretazione del dato letterale pressoché nullo. Lo studio teorico del diritto divenne, per volontà dell’imperatore stesso, un’esegesi del codice: un commentario secco al testo, una nuda spiegazione del contenuto degli articoli della norma, senza la possibilità per il giurista – così come per il magistrato- di interpretarli sistematicamente; l’intervento interpretativo del giurista, nella visione illuminista, era ridotto al minimo poiché la chiarezza della legislazione non lascia spazi ad interpretazione. Napoleone voleva, infatti, che il suo codice fosse autosufficiente e portò all’estremo il positivismo nato in ambito rivoluzionario, arrivando a negare l’autorevolezza giuridica dei concetti di derivazione tradizionale o culturale non fissati dalla legge.
 Il modello dell’insegnamento ora illustrato si sviluppò nella Scuola dell’esegesi attraverso la tecnica del commento, fino a distaccarsi dal positivismo “puro” introducendo uno spazio, seppur delimitato nei suoi confini, per l’interpretazione del giurista e per la storicizzazione del dato normativo. Gli esegeti della generazione post-restaurazione tentarono, infatti, di ricostruire le radici storiche di ogni articolo del Codice per giustificarne la vigenza, soprattutto alla luce della restaurazione e dell’antico regime. In tale prospettiva il codice rimaneva vigente, nonostante avesse tratto la propria emanazione da soggetti “rivoluzionari”, poiché incarnava la tradizione della società di antico regime, basata soprattutto sul diritto romano. Tra i più importanti esponenti della scuola esegetica di seconda generazione ricordiamo Demolombe. Altro esempio del tentativo di collegare il diritto codificato alla tradizione di antico regime è Merlin il quale, vissuto “a cavallo” della rivoluzione e della restaurazione si dedicò alla redazione un’enciclopedia del diritto che conobbe molteplici revisioni. Dapprima, in tempi pre-rivoluzionari essa consistette in un dizionario del diritto dell’antico regime, successivamente subì vari riadattamenti, mediante l’introduzione delle novità subentrate con la rivoluzione e dell’approccio casistico. A seguito della restaurazione, poi, Merlin revisionò tutte le voci della sua enciclopedia alla luce di tutti gli articoli del codice, tentando di individuare il collegamento necessario tra la razionalizzazione del codice e la tradizione precedente.
Detta scuola ebbe un grande impatto soprattutto nei paesi che avevano optato per la codificazione.  Nell’ottocento anche la scienza giuridica italiana contribuì allo studio del diritto ma rimase sempre legata in rapporto di continuo dialogo a quella francese e tedesca. Tale rapporto si espresse soprattutto nelle grandi opere di traduzione della letteratura straniera.
Fu, tuttavia, la Scuola tedesca a detenere il primato indiscusso nello studio del diritto di matrice ottocentesca. Essa si sviluppò in un contesto culturale di grande crescita in tutti i campi delle arti e del sapere.
La scelta di Savigny per la storia aveva esplicitato, anche per il diritto, quell’attaccamento romantico al radicamento delle tradizioni nel popolo. Quello della Scuola storica è, tuttavia, un romanticismo, per così dire, “classico”, poiché il diritto scelto da Savigny quale base per la definizione in chiave storica degli istituti moderni è il diritto romano, ricostruito alla luce di una sua “germanizzazione”. A partire da tale ricostruzione della storia del diritto romano quale frutto dei popoli germanici, perseguita scientificamente da Savigny fin dalla pubblicazione della sua opera “Storia del diritto romano nel medioevo” nel 1815, la Scuola storica pose al centro della propria ricerca il problema dell’interpretazione del testo di Giustiniano nel corso del medioevo, età simbolo del trionfo del germanesimo, passaggio prezioso per tramandare il diritto romano alla società moderna. Tale scelta ebbe un chiaro indirizzo politico: il perseguimento dell’unità culturale e giuridica alla luce della constatazione della frammentazione politica che aveva suscitato nell’élite romantica tedesca un bisogno di identificazione molto forte.
Tutto ciò rappresenta la fondamentale premessa all’opera più matura di von Savigny: System des heutigen römischen Rechts, letteralmente “il sistema del diritto romano attuale”, il diritto romano, dopo una minuziosa ricerca delle fonti necessarie a ricostruirne il volto originario, venne riproposto attualizzato come diritto vigente. La nuova scienza romanistica riorganizzò i concetti del diritto romano estraendo quelli più importanti e ponendoli alla base di un nuovo sistema di diritto civile. Il diritto tedesco venne così affidato non alla codificazione ma alla scienza giuridica, intenta a rielaborare i contenuti del diritto romano mediante la costruzione di un enorme castello di concetti portanti -Begriffe- e di categorie generali del diritto sotto le quali sussumere i concetti particolari.
Savigny fu un grande caposcuola, il suo pensiero si diffuse rapidamente in tutta Europa grazie ai progressi della comunicazione scientifica, per mezzo di una fitta rete epistolare e le nuove riviste specializzate, e alla grande diffusione della lingua tedesca come la lingua della cultura.
Tra i suoi tanti allievi è da ricordare Puchta, considerato il fondatore della cd Pandettistica, la branca della scuola storica che, sulla spinta della sistematica di Donello, si occupò di riorganizzare i concetti delle norme delle Pandette per inventarne di nuovi e più generali, come quello del “negozio giuridico” – cfr Gluck, “usus modernus pandectarum”. Tale scuola propose una rilettura del Digesto in modo riordinato, in linea con la tradizione razionalistica e rappresenta la corrente assolutamente dominante fino all’età contemporanea. Il più importante dei pandettisti è Windscheid.
Tuttavia, questa tendenza alla prevalenza del diritto romano è sfidata da un’altra corrente della stessa Scuola storica tedesca: i germanisti.
Sia l’impianto borghese dei codici moderni, sia l’elaborazione del diritto romano della pandettistica, portatore dei principi della libera volontà dei soggetti e dell’accumulazione capitalistica, avevano, infatti, avuto come risultato un forte individualismo che, se da un lato permetteva il progresso economico e la parità di tutti i soggetti dinanzi allo Stato, dal punto di vista economico-sostanziale creava forti iniquità per tutti i soggetti che, seppur affrancati dai vincoli, non avevano la concreta possibilità di avanzamento. La logica strettamente individualista, dunque, aveva provocato effetti socialmente inaccettabili.
I germanisti, pertanto, cominciarono ad entrare in conflitto la vecchia scienza del diritto, che aveva ad oggetto una società del tutto astratta e diversa da quella reale, sostenendo che i principi di diritto romano proposti da Savigny quali fondanti la moderna società altro non erano se non una indebita ingerenza dello spirito “straniero”, su quello germanico. Nel mettere, indi, in luce la prevalenza dello spirito del popolo sul diritto romano, la nuova corrente si concentrò nello studio degli aspetti non toccati dal Digesto come il diritto pubblico e il diritto commerciale, sottolineandone la derivazione tedesca. Tra i germanisti di rilievo ricordiamo Beseler, Gierke. Romanista, ma attento alle posizioni della parallela scuola dei germanisti fu Jhering, cui si deve una tra le critiche più corrosive alla Pandettistica.
Anche in Italia, all’alba della fine delle guerre di Indipendeza si cominciò a lavorare al codice unitario e ad una unificazione giuridica. Per quanto attiene alla Costituzione si optò per l’adattamento dello Statuto Albertino che da “rigido” passò, in via consuetudinaria, a “flessibile”, potendo ora essere modificato anche tramite legge ordinaria.

Per il codice il problema era rappresentato dalla diversità di esperienze giuridiche degli stati italiani preunitari problema. Inizialmente si lavorò ad un progetto di ampliamento del cc piemontese del 1837, progetto che a seguito delle molte resistenze che vedevano in esso un’imposizione forzata fallì lasciando spazio alla creazione ex novo di un codice sul modello di quello napoleonico, che aveva fornito la base di tutti i codici preunitari, ma introducendo, tuttavia, anche elementi estranei che lo “italianizzanizzarono”. Esso venne influenzato, ad esempio, dal codice austriaco che determinò un depotenziamento figura paterna nel diritto di famiglia, e dal codice napoletano con le sue persone giuridiche, estranee al diritto francese rivoluzionario e poi al Codice Napoleone. Questa grande officina portò all’emanazione del codice del 65 non rimasto avulso da critiche- v. Sclopis.
A cura di Chiara Casuccio

martedì 12 dicembre 2017

Lezione del 12 dicembre 2017

Con la sconfitta di Napoleone nel 1814 si apre la fase della restaurazione. Tale evento determina una grande trasformazione per tutta l’Europa, in considerazione anche della grande espansione che aveva raggiunto l’impero napoleonico. La restaurazione dell’ordine politico dell’Ancien régime non poteva certo permettere il permanere di molte innovazioni introdotte dalla Rivoluzione francese e consacrate nel Codice di Napoleone che fu vigente anche nei territori conquistati dalle armate francesi in Europa continentale.
Tuttavia, dal punto di vista giuridico, permasero anche molti elementi frutto della parentesi rivoluzionaria europea, primo fra tutti le costituzioni. Esse tuttavia, come la Charte della Francia restaurata o lo Statuto albertino del 1848 conservarono un elemento di differenza rispetto alle costituzioni rivoluzionarie: non erano enunciazioni di diritti emanate da un potere costituente ad hoc ma erano il frutto di una concessione del sovrano al proprio popolo, il quale sceglieva, consapevolmente di autolimitarsi. La ragione della permanenza di queste costituzioni nonostante la restaurazione è insita nella irrequietezza che caratterizza il XIX sec., attraversato sia da istanze di tipo reazionario tendenti al ritorno allo status prerivoluzionario, sia da istanze progressiste dirette al perfezionamento delle novità derivate dalla rivoluzione. Le istanze romantico- reazionarie portarono, ad esempio, ad una rinnovata promozione della spiritualità in opposizione alla compressione illuministica della funzione pubblica della religione, relegata dalla rivoluzione francese a mero elemento interiore dell’individuo. In generale, si riscontrano, nella stessa ottica reazionaria, istanze nostalgiche nei confronti del medioevo e dell’antico regime.
L’Europa ottocentesca conobbe, al lato opposto, vari momenti insurrezionali – moti del 1820 e 21; 30 e 31, del 1848- caratterizzati dalla forte avversione alla restaurazione, dal ruolo centrale del popolo nella vita collettiva e da un utopismo verso un assetto nuovo, che vede nella rivoluzione francese il passo fondamentale verso il progresso. Di fondo vi è l’idea che i popoli post rivoluzionari hanno acquisito la consapevolezza di un possibile diverso ordine dello stato. Durante detto secolo comincia, infatti, ad affacciarsi sul panorama europeo il pensiero socialista, concretizzatosi nella pubblicazione del manifesto del partito socialista del 1848.
Uno dei problemi al centro del dibattito ottocentesco è quello relativo al potere costituente, al soggetto nelle cui mani detto potere viene concentrato e delle possibilità di modifica o sospensione dei diritti con esso sanciti. Secondo Carl Schmitt ad esempio, il soggetto posto a chiusura dell’ordinamento è proprio quello nelle cui mani viene concentrata la facoltà di decidere circa lo stato d’assedio, giacché esso è, in definitiva, sovraordinato rispetto alla costituzione stessa, avendo il potere di sospenderla nei casi di necessità.
L’ Ottocento è un “secolo fortemente giuridico”. Le dottrine e le esperienze ottocentesche impregneranno di sé il pensiero giuridico contemporaneo determinandone lo sviluppo.
La comune esperienza è rappresentata dalla codificazione. L’atteggiamento nei confronti del codice è tuttavia differente a seconda del paese di attuazione, potendosi registrare una esperienza parallela rispetto al modello improntato sul codice napoleonico.
Nell’ impero asburgico, ad esempio, il codice “borghese” del 1811 risentì al tempo stesso della mancata esperienza della rivoluzione, che era stata fondamentale per l’abolizione delle differenze di ceto e la radicale unificazione della società, e dell’assolutismo illuminato, ispirato dalle dottrine kantiane.
La Germania, invece, prima dell’adozione del BGB nel 1900, operò una scelta diversa.  Nel 1814 essa si sottopose ad un acceso dibattito sulla convenienza o meno di adottare una codificazione. V’è anche da considerare il connesso problema che, in generale, si pose alla scienza giuridica dell’Ottocento, intenta ad indagare circa il ruolo più o meno creativo del giurista e l’essenzialità o meno del suo operato ai fini della completezza del sistema. In questo contesto, si contrapposero le soluzioni di due grandi giuristi dell’epoca: Thibaut e Savigny. Thibaut propose una codificazione unitaria per tutta la nazione tedesca: voleva creare, secondo il modello universalista illuminista, mediante un’operazione razionale un’infrastruttura giuridica valida per tutti i principati tedeschi, con l’obiettivo eminentemente economico di facilitarne gli scambi commerciali. Egli era convinto, da buon romantico e nazionalista, della germanicità unitaria di tutti i popoli tedeschi. Dal canto suo, von Savigny riteneva che la giuridicità di una norma non dovesse derivare dalla razionalità o dall’imposizione formale di una legge ma dallo spirito del popolo stesso – nel senso peculiare di élite culturale educata alla consapevolezza storica-, che riconosceva una regola come giuridica e dunque vincolante. In altre parole, il diritto vigente, secondo Svigny, sarebbe dovuto derivare dalle visioni del mondo del diritto stratificate nella coscienza del giurista il quale doveva osservare come i diversi giuristi avevano commentato e applicato gli istituti del diritto romano. Ciò che avrebbe accomunato i popoli tedeschi, dunque, non sarebbe stata l’imposizione della razionalità di un sistema artificiale ma la loro tradizione comune, la storia.
Savigny aveva maturato la propria posizione a partire dalla sua prima pubblicazione sul possesso nel diritto romano nel 1803. Nel 1814, anno della polemica, egli ripropose la sua metodologia di studio dell’istituto del possesso attraverso l’osservazione di come esso era stato utilizzato dai giuristi romani e, successivamente, commentato dai giuristi medievali, ritenendola applicabile a tutti gli istituti. L’identità giuridica dei popoli risiedeva nella storia ed in essa andava ricercata. In questa ricerca, la scuola storica di Savigny si “appropriò” del diritto romano, usando le fonti del diritto civile antico per costruire un diritto civile tedesco. Il diritto romano, dopo una minuziosa ricerca delle fonti necessarie a ricostruirne il volto originario, venne riproposto attualizzato come diritto vigente. La nuova scienza romanistica riorganizzò i concetti del diritto romano estraendo quelli più importanti e ponendoli alla base di un nuovo sistema di diritto civile. Così, sul piano culturale, l’unità tedesca si realizza molto prima dell’unificazione politica.
In Italia la situazione si presenta oltremodo frazionata: molti stati mantennero il modello del codice napoleonico: il Regno delle due Sicilie promulgò il proprio codice già nel 1819 e quello di Sabaudo nel 1837; rimasero avulsi da tale sistema il Granducato di Toscana, influenzato dal dibattito tedesco, e il ducato di Milano, parte dell’impero asburgico. 
Complessivamente si può, tuttavia, affermare che quasi tutta l’Europa continentale operò la scelta per un diritto codificato, un diritto, cioè, razionalmente semplificato che aveva abbandonato il complesso sistema del diritto comune.
Il codice venne, però, adattato alla condizione politica e culturale dei diversi stati in cui venne adottato. Nel Regno di Napoli, ad es., si abolì il divorzio e tornò in auge la preminenza del potere patriarcale nel campo del diritto di famiglia e successorio.

A cura di Chiara Casuccio

Lezione dell'11 dicembre 2017

Verso la fine del XVIII secolo si assiste ad un passaggio fondamentale nella storia istituzionale moderna. Nato dal fermento ideologico e storico, esso segnerà la più grande cesura rispetto ai sistemi di antico regime: la creazione di una serie di costituzioni scritte, sistemi, cioè, di norme sovraordinate alla legge e preposte al funzionamento degli stati nazionali.
Vi sono tre grandi tappe della creazione costituzionale:
-       La Dichiarazione di indipendenza americana del 1776
-       La Costituzione americana del 1787
-       La Dichiarazione dei diritti dell’uomo francese 1789.
Nonostante gli evidenti tratti comuni costituiti dall’oggetto delle moderne costituzioni -la costituzione di uno stato di diritto mediante l’imposizione di limiti al potere dello Stato e l’istituzione di maggiori garanzie per i cittadini-, il modello anglosassone di costituzione si atteggiò, tuttavia, in modo parzialmente diverso rispetto al modello costituzionale continentale. Tale diversità è dettata in primo luogo da un diverso substrato ideologico e culturale: da un lato, il pragmatismo anglosassone teso alla risoluzione di problemi concreti, come quello primario dell’imposizione fiscale, rese la costituzione americana un modello di costituzione fortemente “individualista”, rifiutando l’idea di uno Stato-regolatore della società e dell’economia; al lato opposto, il diverso concetto di benessere, legato alle teorizzazioni della moderna scienza economica -v. A. Smith- portò alla statuizione di principi differenti da quelli enfatizzati durante la rivoluzione francese.
Secondo il modello anglosassone, infatti, la ricchezza delle nazioni non è centrata sulla proprietà, come nella codificazione francese, di poco successiva, ma sull’efficienza degli scambio e della circolazione del credito: in tale ottica di forte fiducia nella intrinseca capacità degli individui di crescita economica, la costituzione americana e, prima ancora, la Dichiarazione di indipendenza, esaltarono la libertà dei commerci e quella individuale nel perseguimento dei propri interessi riducendo al massimo la possibilità dello Stato di intervenire nella regolazione del settore.
A differire dalla nozione “tradizionale” non era soltanto l’idea di benessere, ma la stessa idea di proprietà: nel sistema anglosassone essa non rappresenta un potere assoluto sulla cosa, la è un diritto reale fortemente frazionato, limitato da elementi temporali o da diritti altrui sulla cosa.
Un altro elemento di differenza rispetto al modello francese, legato al pragmatismo anglosassone e all’idea di Stato fortemente individualista, è la centralità della questione dell’imposizione fiscale e della legittimità delle norme impositive costituite senza la partecipazione dei rappresentanti dei diversi ceti della società.
In entrambe le esperienze, americana e francese, inoltre, si pose come centrale il problema della separazione dei poteri, elemento indispensabile per evitare che il potere si converta in dispotismo. Il modello ideale di stato era rappresentato, secondo le teorizzazioni franco-rivoluzionarie, dall’Inghilterra, il cui equilibrio nella separazione dei poteri era stato già evidenziato dal filosofo J. Locke. Il modello monarchico di identificazione nazionale venne, tuttavia, meno nel caso americano e, in un certo periodo, anche in quello francese.
Nonostante il forte radicamento delle dottrine illuministe in Francia, il monarca contro cui avvenne la rivoluzione fu un monarca molto diverso da quello teorizzato sul modello inglese. Luigi XIV e i suoi predecessori, infatti, non si lasciarono mai affascinare dal pensiero illuminista traducendolo in concreto modello di governo: prova ne è che la convocazione degli Stati generali, le assemblee rappresentative dei diversi stati sociali, non fondate sul modello democratico ma su quello medievale della corporazione, ai tempi della rivoluzione, non avveniva da oltre 150 anni – 1614-. Solo nel 1789, per la prima volta dopo decenni di inattività vennero riconvocati gli Stati generali.
Il peso ormai insopportabile del sistema di vincoli alle persone ed alle cose imposto dall’antico regime, ed il crescente fermento sociale sono testimoniati da una serie di documenti prodotti dalle assemblee locali, i cd cahiers des doléances, Essi sono, in altre parole, le critiche sollevate dalla nazione stessa contro lo stato, e tutte le manifestazioni del potere signorile feudale che determinavano la costrizione dei ceti meno abbienti e l’inalterabilità della loro condizione, l’inefficienza della giustizia, la tassazione troppo alta etc.
Il momento di rottura, che portò alla presa della Bastiglia il 14 luglio 1789, è rappresentato dalla chiusura definitiva degli Stati generali da parte del re. L’assetto costituzionale che si stabilisce con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto, è tipicamente rousseauiano: vennero distrutti tutti i simboli dell’antico regime e una grande assemblea nazionale, sottratta alla possibilità di scioglimento da parte del re, venne posta a controllo di tutte le attività di governo, esercitando tale potere mediante la legge; il governo ed i magistrati attuavano, così, la legge alla stregua di macchine, senza avere la possibilità di incidervi. Con la legge si perseguiva ogni tipo di intervento del potere del popolo sulla sua propria nazione; qualsiasi attività di governo e gestione doveva essere enunciata mediante lo strumento della legge che le autorizzava. L’attività di governo non autorizzata era illegittima ed in quanto tale doveva essere soppressa; l’esercizio del potere giudiziario doveva consistere nella meccanica applicazione della legge senza possibilità di interpretazione, estensione, ragionamento analogico e, nei casi dubbi, il magistrato doveva rivolgersi direttamente all’Assemblea per ottenere un’interpretazione autentica della norma - référé législatif.
Il 4 agosto 1789 erano, inoltre, stati aboliti tutti i diritti feudali senza indennizzo. Insieme al principio della legge quale espressione della volontà popolare vennero, dunque, affermati con forza i due diritti fondamentali compressi dal sistema dell’antico regime: la libertà e la proprietà.
La prima fase rivoluzionaria è, dunque, una fase fortemente istituzionale in cui la legge, insieme alle procedure e al processo viene posta a tutela delle libertà individuali: esse rappresentano, infatti, la necessaria intermediazione tra potere e individuo. In particolare, la legge è il modo formale con cui lo Stato predetermina le regole che nemmeno lo Stato stesso può violare.
Tuttavia, la preminenza del potere legislativo su quello giudiziario ed esecutivo, determinando, di fatto, uno squilibrio tra poteri, produsse, ben presto un cortocircuito: l’assolutezza del potere popolare degenerò nel cd Periodo giacobino del Terrore -1793 Robespierre-. Esso veniva esercitato senza la necessaria intermediazione della legge e delle procedure e questo comportò che moltissimi cittadini vennero processati in base al sospetto di aver ordinato un complotto contro la nazione. Le istituzioni si autolegittimavano, così, attraverso la persecuzione dei complotti creando unione e approvazione mediante la creazione artificiale di nemici comuni.
La situazione subì una decisa inversione di marcia a seguito del colpo di stato di Napoleone e la restaurazione della forma monarchica. Nel 1804 egli divenne imperatore ma il fermento rivoluzionario non venne abbandonato: esso si tradusse, nello stesso anno, nella codificazione, depositaria dei concetti di proprietà e libertà, figli della rivoluzione stessa.

A cura di Chiara Casuccio