giovedì 9 novembre 2017

La lezione del 27 novembre è spostata al 30

La lezione di lunedì 27 novembre è spostata al giovedì 30, alle ore 15,45 (16,00) nell'aula 7.

Lezione dell'8 novembre 2017

La figura di Pepo, che nelle poche testimonianze pervenute fino a noi viene esaltata quale tra i primi rinnovatori dello studio del diritto romano, sottolinea, in realtà, la profonda differenza dell’età preirneriana, caratterizzata da un uso strumentale del diritto romano – v. episodio del Placito Lombardo-, da quella che si apre con la fondazione dell’università di Bologna.
Fin dal Duecento, la figura di Irnerio è stata oltremodo caricata di importanza storica, mediante l’attribuzione ad un solo autore -Irnerio, appunto- di una produzione giuridico-letteraria proveniente da molteplici personalità – principalmente suoi allievi.
Tale figura, per lo storico del diritto medievale non è, in realtà, storicamente ben definita. In primo luogo, è lo stesso nome “Irnerio” a indurre in errore: la figura storica del mitico “fondatore” della scuola di Bologna deve farsi coincidere con quella del giudice bolognese “Wernerius”, presente in molti documenti della prassi giudiziale.
Il nome di Irnerio appare, poi, tra gli appartenenti al partito politico imperiale, scomunicati insieme all’imperatore Enrico V per aver caldeggiato l’elezione dell’anti papa nel 1118.
Quel che è certo, però, è che il nome di Irnerio è inscindibilmente legato alla “Renovatio” dei libri legali di Giustiniano: l'operazione “filologica” prima ancora che giuridica di ricostruzione delle quattro parti del Corpus Iuris Civilis nella loro forma originale (rectius in una forma il più possibile vicina all'originale) e che consentì la fondazione del nuovo modo di studiare il diritto. Racconta, a tal proposito, Burcardo che detta renovatio – termine che in latino medievale indica l’atto di copiatura del libro deteriorato- ebbe luogo su impulso di Matilde di Canossa che, sensibile alle rinnovate esigenze di giustizia sostanziale, chiese al giurista di “rinnovare” – ossia di ricomporre- i libri delle leggi, da tempo abbandonati e dimenticati.
Il lavoro di rinnovazione pose al giurista – o meglio, al gruppo di giuristi che lavorò con Irnerio- non pochi problemi, di carattere pratico e, solo successivamente, interpretativo. Il primo problema riguardava la materiale disponibilità di un testo originale su cui poter effettuare il lavoro di “restauro”, giacché come abbiamo visto per il Digesto, i libri in questione erano caduti in disuso da ormai 5 o 6 secoli. Sopravvivevano invece forme epitomate, antologie e raccolte – incomplete poiché compilate nell’ “ottica dell’utilizzatore” - di brani del Corpus.
L’operazione realizzata da Irnerio fu, dunque, una minuziosa opera di confronto delle varie versioni dei testi circolanti, tesa alla ricostruzione del volto originale del CJC, che culminò nella ricostruzione dei primi libri del Codex – gli ultimi “Tres Libri” erano di non facile reperimento, giacché, stante la tecnicità della materia trattata, di rado erano oggetto di copiatura- e delle Institutiones. Per il Digesto l’operazione fu più complessa: venne recuperato in diversi manoscritti e la loro renovatio avvenne in tempi diversi: dapprima Irnerio mise le mani sui libri da 1 a 24 (Digestum Vetus); successivamente ricostruì i libri da 39 a 50 (Digestum Novum); ed infine i restanti libri, che presero il nome di Infortiatum.
 Per le Novellae al problema dell’ottica parziale -poichè sintetica- dell’Epitome Iuliani si sommava il fatto che la copiatura delle costituzioni scritte in greco in Occidente era stata, fin da subito, tralasciata in quanto incomprensibile. A ciò si aggiunga che l’autenticità del testo latino dell’Authenticum venne, in un primo momento, posta in dubbio anche dallo stesso Irnerio: sotto un primo ordine di ragioni l’autorità del testo venne criticata per aver le Constitutiones presenti al suo interno uno stile totalmente differente da quelle del Codex – ciò trova la propria giustificazione nel fatto che le costituzioni del Codex vennero inserite da Triboniano soltanto nella loro parte dispositiva-; dal punto di vista contenutistico, invece, alcune costituzioni dell’Authenticum intervenivano in modifica di norme contenute nel Codice, ponendosi in contrasto con la ricordata dichiarazione di completezza fatta da Giustiniano all’atto di promulgazione del Codex.
Venne, comunque, portato a compimento l’ultimo volume dell’opera irneriana, nel quale confluirono anche le Novelle nella versione dell’Authenticum – ad eccezione di quelle greche, che dunque lasciano una lacuna nel lavoro di ricostruzione-, e i Tres Libri: il Volumen Parvum.
La vera innovazione di questa operazione consiste nel fatto che alla restituzione ai Libri Giustinianei del loro “volto originale” corrisponde un radicale mutamento di tendenza: non è più l’utilizzatore colui al quale è demandato il compito di decidere quali norme prendere in considerazione e quali no, nella prospettiva soggettiva dell’utilità pratica di dette norme: è il legislatore che ha il più ampio potere di imporre un sistema normativo completo e coordinato fatto di norme aventi tutte identico valore di legge.
A fronte di questo quadro imposto dall'alto, si sviluppa uno studio didattico delle norme di legge, caratterizzato dalla fede del giurista nella completezza della legislazione. Esso consiste in un'opera di confronto e coordinamento delle leggi, e di soluzione delle molte contraddizioni. È proprio grazie alle contraddizioni che si sviluppa la dialettica scolastica, impegnata a conciliare norme formalmente tutte vigenti grazie all’indagine sulle rationes. Lo strumento di coordinamento delle norme utilizzato dai primi studiosi dei rinnovati testi giustinianei è la glossa, aggiunta a margine e a piè di pagina.
L’atteggiamento del giurista nei confronti del fenomeno della compilazione è confortato dal “sistema dei cerchi concentrici” del diritto, il quale, permette allo studioso di colmare le apparenti lacune e trovare la ratio in norme apparentemente ingiuste:
-       Ius naturale: rappresenta quel complesso di situazioni costituenti quella che, in generale, può essere definita normativa naturalmente insita nelle cose, che sono portatrici di una giustizia naturale, in attesa di essere resa esplicita dalle regole umane. Es.: filiazione.
-       Ius gentium: è il diritto delle genti, che rispecchia l’equilibrio che risiede nella natura qualificandolo come questo o quell’istituto giuridico. Perciò istituisce principi comuni a popoli che vivono in diversi regimi politici. Alcune norme umane precisano alcuni principi naturali, ma essendo comuni a tutte le genti à condivise da tutti.
-       Ius civile: la civitas, che costituisce il regime politico unitario da cui dipende il ius civile, prevede un sistema di giustizia regolato dalle azioni, dalle eccezioni e dalla procedura. Questo elemento qualifica ulteriormente gli istituti, garantendo la tutela dei diritti.
Il ius civile ha un istituto fondamentale non presente nei primi due sistemi: il processo e le actiones, i quali consentono al singolo, all’interno della civitas, di chiedere e ottenere giustizia, giacché è solo l’actio che qualifica, formalmente, il diritto.
L’actio, tuttavia, è un istituto formale e può, in quanto tale peccare di poca elasticità alle esigenze di giustizia del caso concreto. Pertanto, già nel diritto romano classico la rigidità dell’actio, della formula, poteva essere attenuata grazie ai rimedi, generalmente le exceptiones, forniti dal pretore nel caso in cui la mera forma avesse creato una sostanziale ingiustizia.
Sulla scorta di questa bipartizione azione-eccezione corrispondente al binomio forma-sostanza, la scolastica medievale, improntata allo studio sistematico delle rationes e dei principi ordinatori del’ordinamento giuridico, costruì, sulla scorta delle causae aristoteliche, la teoria della causa naturale e della causa civile. In ogni rapporto giuridico, infatti, sono sempre presenti due cause, l’una civile e formale e l’altra naturale e sostanziale, rispondente ai principi di giustizia naturale, ai principi cioè di aequitas. La loro congiunzione produce gli istituti del Corpus. Ogni norma dell’imperatore, nella visione della nuova scienza giuridica, doveva contenere un’aequitas; compito del giurista era, dunque, quello di capirla ed estrapolarla mediante la messa a confronto di norme apparentemente discordanti.
Questo modo di concepire il diritto come unum di per sé già completo e inattaccabile, può entrare in crisi o quantomeno in conflitto con il precetto religioso da esso discordante.
I glossatori civilisti trovarono, sovente, soluzioni opposte ai problemi prospettati da tale contrasto norma laica- precetto religioso. Un chiaro esempio è rinvenibile nei dibattiti dottrinali di Bulgaro e Martino – due dei quattro dottori, allievi di Irnerio, insieme a Iacopo e Ugo- che furono raccolti nelle cd “dissentiones dominorum” , a cura dei loro allievi. Ad esempio, oggetto di discussione fu la possibilità, per la categoria privilegita dei minorenni, di recedere da un giuramento in cui l’oggetto della prestazione giurata non sia equilibrato. Secondo la teoria di Bulgaro un simile giuramento può essere disatteso senza commettere alcun sacrilegio in quanto la formalità ha rafforzato un’obbligazione nulla, in quanto nullo ne era l’oggetto. Martino, invece, espone la teoria opposta della vincolatività di un simile giuramento – che non a caso prende il nome latino di sacramentum – in quanto suggellato una volta per tutte dall’intervento divino. Protende, infine, per quest’ultima tesi della vincolatività in ogni caso dei giuramenti anche lo stesso imperatore Federico Barbarossa nella costituzione Sacramenta puberum.

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