giovedì 24 novembre 2016

Lezione del 23 novembre 2016

La maturità giuridica della scienza di fine trecento non può ridursi all’identificazione di essa con la semplice ripresa del diritto romano giustinianeo.
Lo abbiamo visto nella lezione precedente facendo riferimento al diritto privato, ma la natura composita dell’età del ius commune è ravvisabile in molti altri aspetti della vita del diritto, in cui le contingenze sociali e storiche tipicamente medievali apportarono profonde modificazioni all’apparato giuridico classico.
Un altro esempio è il diritto penale: questo assunse caratteri nuovi rispetto alla tradizione alto medievale. La principale novità consistette nella trasformazione della forma del processo che da accusatorio divenne inquisitorio. Nella nuova procedura l’onere della prova della colpevolezza del sospettato, si spostava dall’offeso al magistrato, che molto spesso era la stessa persona a cui spettava il compito di giudicarlo. Il processo inquisitorio, nato per esigenze di repressione delle minacce all’ordine pubblico, ricalcava l’antica procedura prevista per il crimen laesae maiestatis che nel diritto romano, tuttavia, era una procedura speciale in quanto peggiorativa delle garanzie date al reo. Essa, infatti, includeva una serie di strumenti di ricerca delle prove che, appunto perché “speciali”, esulavano dalla normale procedura posta a salvaguardia anche della posizione del reo. Tra questi strumenti di prova vi era anche la tortura, volta ad estirpare la confessione del sospettato che di fatto anticipava il momento punitivo alla fase precedente alla statuizione sulla colpevolezza o meno.
Il più noto processo inquisitorio fu quello attuato dalla chiesa contro le eresie, tuttavia diversi furono gli ambienti in cui esso si applicò. Gli statuti comunali, ad esempio, si concentrarono molto sul tema della legge penale, anche a causa della difficile situazione politica al loro interno caratterizzata da momenti di aspro scontro tra fazioni. Tali scontri, così come le eresie cd “sociali”, minacciavano fortemente il bene di vita pubblico della pace sociale.  Poiché quello che veniva leso era un interesse pubblico era necessaria una procedura nuova che andasse oltre lo schema offeso-accusato. Fu proprio per tale motivo che, giuridicamente, venne concepita la tecnica del passaggio della responsabilità di agire penalmente dall’offeso al magistrato. Si procedette mediante un elemento già noto al mondo romano: la fama. Il sospettato per pubblica fama diveniva oggetto di indagine da parte del magistrato poiché era stata proprio “la sua fama” ad averlo accusato, ad aver portato alla cognizione del magistrato la notitia criminis. Tale applicazione è ben spiegata da Alberto Gandino nel suo Trattato de Maleficiis, Le stesse caratteristiche inquisitorie vennero assunte all’interno dei regni: qui la questione dell’iniziativa penale fu posta al centro delle loro politiche di autonomia, come fu in Inghilterra per il tentativo di applicare la legge penale laica anche ai chierici. Altro elemento portante del processo inquisitorio mutuato dalla procedura di lesa maestà fu quello della confisca dei beni del condannato, pena funzionale agli introiti della corona che fu largamente inflitta anche ai templari processati nel 1307 da Filippo il bello di Francia.
Sul campo del diritto pubblico si cominciò a porre il problema del bilanciamento tra l’absolutio da qualsiasi legge del legislatore e dei limiti postigli dall’ordinamento stesso. La questione riguardava in sostanza la qualificazione della sovranità del re all’interno del proprio regno: quali erano i suoi poteri e fino a dove poteva spingersi? Il problema venne molto sentito in Sicilia, e già nei primi commenti al Liber Augustalis si ritrova la formula espressiva della sovranità medievale “rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator”. Il rapporto tra sovrano e ordinamento non era di facile soluzione a livello giuridico – se non addirittura impossibile. Il limite della sovranità, nel medioevo, venne, perciò, ricercato al di fuori del diritto ed in particolare nella morale ed in Dio: era Dio che puniva il sovrano che aveva oltrepassato i propri limiti.
La società medievale si affacciava sempre più verso il moderno, gestita da logiche del diritto raffinate ed amministrata da un’ampia classe di giuristi che ne avevano appreso le tecniche interpretative e che ora popolavano non solo i ranghi della magistratura ma anche quelli delle amministrazioni statali. All’interno di questo nuovo ceto di tecnici del diritto venne ben presto introdotto un elemento di novità sul piano culturale consistente nelle suggestioni di rinnovamento nutrite del fascino per l’antichità. La critica dell’attualità veniva allora effettuata mediante una rievocazione del mondo passato. Tale idea è alla base del cd Umanesimo giuridico che vide l’irruzione di questo amore per l’antico nel panorama consolidato delle fonti del diritto romano così come inserite e studiate nell’ambito del ius commune. Si riscoprì, perciò, una cura nella ricostruzione del testo antico originario, coadiuvata dalla filologia. Questa consentiva al letterato di identificare, attraverso lo studio della lingua, l’epoca in cui il testo era stato scritto e quindi l’autenticità o meno di esso. Uno dei più famosi filologi del quattrocento fu Lorenzo Valla che operò, criticandolo, sul testo del Digesto nella versione della Vulgata individuandone tutte le cd “varianti”, gli errori di copiatura che non solo erano molto frequenti ma, a volte, risultavano determinanti.

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La critica filologica del Digesto fu resa possibile grazie anche al suo confronto con il manoscritto di epoca giustinianea conservato a Pisa e fatto oggetto di bottino una volta che la città venne conquistata dalla stirpe medicea: le Pandette Fiorentine. L’inizio della critica filologica, dettato dall’amore per l’antico risultò, tuttavia, essere distruttivo dell’impalcatura logica e concettuale su di essa costruita dalla vecchia scienza giuridica. Essa fu, pertanto, fortemente osteggiata dalle università italiane e molti dei giuristi ed intellettuali che si dedicarono alla nuova “scienza filologica” dovettero trasferirsi, fondando una nuova scuola a Bourges. Si contrapposero così due nuovi approcci al diritto: quello di vecchio stampo universitario che prese il nome di Mos Italicus, e quello caratterizzato dallo spirito di critica filologica del testo di legge, conosciuto come Mos Gallicus.
A cura di Chiara Casuccio

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