La maturità giuridica della scienza di fine trecento non può ridursi
all’identificazione di essa con la semplice ripresa del diritto romano
giustinianeo.
Lo abbiamo visto nella lezione precedente facendo riferimento al diritto
privato, ma la natura composita dell’età del ius commune è ravvisabile in molti altri aspetti della vita del
diritto, in cui le contingenze sociali e storiche tipicamente medievali apportarono
profonde modificazioni all’apparato giuridico classico.
Un altro esempio è il diritto penale:
questo assunse caratteri nuovi rispetto alla tradizione alto medievale. La
principale novità consistette nella trasformazione della forma del processo che
da accusatorio divenne inquisitorio.
Nella nuova procedura l’onere della prova della colpevolezza del sospettato, si
spostava dall’offeso al magistrato, che molto spesso era la stessa persona a
cui spettava il compito di giudicarlo. Il processo inquisitorio, nato per
esigenze di repressione delle minacce all’ordine pubblico, ricalcava l’antica
procedura prevista per il crimen laesae
maiestatis che nel diritto romano, tuttavia, era una procedura speciale in
quanto peggiorativa delle garanzie date al reo. Essa, infatti, includeva una
serie di strumenti di ricerca delle prove che, appunto perché “speciali”,
esulavano dalla normale procedura posta a salvaguardia anche della posizione
del reo. Tra questi strumenti di prova vi era anche la tortura, volta ad estirpare la confessione del sospettato che di
fatto anticipava il momento punitivo alla fase precedente alla statuizione
sulla colpevolezza o meno.
Il più noto processo inquisitorio fu quello attuato dalla chiesa contro le
eresie, tuttavia diversi furono gli ambienti in cui esso si applicò. Gli
statuti comunali, ad esempio, si concentrarono molto sul tema della legge
penale, anche a causa della difficile situazione politica al loro interno
caratterizzata da momenti di aspro scontro tra fazioni. Tali scontri, così come
le eresie cd “sociali”, minacciavano fortemente il bene di vita pubblico della
pace sociale. Poiché quello che veniva
leso era un interesse pubblico era necessaria una procedura nuova che andasse
oltre lo schema offeso-accusato. Fu proprio per tale motivo che,
giuridicamente, venne concepita la tecnica del passaggio della responsabilità
di agire penalmente dall’offeso al magistrato. Si procedette mediante un
elemento già noto al mondo romano: la fama.
Il sospettato per pubblica fama diveniva oggetto di indagine da parte del
magistrato poiché era stata proprio “la sua fama” ad averlo accusato, ad aver
portato alla cognizione del magistrato la notitia
criminis. Tale applicazione è ben spiegata da Alberto Gandino nel suo Trattato de Maleficiis, Le stesse
caratteristiche inquisitorie vennero assunte all’interno dei regni: qui la
questione dell’iniziativa penale fu posta al centro delle loro politiche di
autonomia, come fu in Inghilterra per il tentativo di applicare la legge penale
laica anche ai chierici. Altro elemento portante del processo inquisitorio
mutuato dalla procedura di lesa maestà fu quello della confisca dei beni del condannato, pena funzionale agli introiti
della corona che fu largamente inflitta anche ai templari processati nel 1307
da Filippo il bello di Francia.
Sul campo del diritto pubblico
si cominciò a porre il problema del bilanciamento tra l’absolutio da qualsiasi legge del legislatore e dei limiti
postigli dall’ordinamento stesso. La questione riguardava in sostanza la qualificazione
della sovranità del re all’interno del proprio regno: quali erano i suoi poteri
e fino a dove poteva spingersi? Il problema venne molto sentito in Sicilia, e
già nei primi commenti al Liber Augustalis si ritrova la formula espressiva
della sovranità medievale “rex superiorem
non recognoscens in regno suo est imperator”. Il rapporto tra sovrano e
ordinamento non era di facile soluzione a livello giuridico – se non
addirittura impossibile. Il limite della sovranità, nel medioevo, venne,
perciò, ricercato al di fuori del diritto ed in particolare nella morale ed in
Dio: era Dio che puniva il sovrano che aveva oltrepassato i propri limiti.
La società medievale si affacciava sempre più verso il moderno, gestita da
logiche del diritto raffinate ed amministrata da un’ampia classe di giuristi
che ne avevano appreso le tecniche interpretative e che ora popolavano non solo
i ranghi della magistratura ma anche quelli delle amministrazioni statali.
All’interno di questo nuovo ceto di tecnici del diritto venne ben presto
introdotto un elemento di novità sul piano culturale consistente nelle
suggestioni di rinnovamento nutrite del fascino per l’antichità. La critica
dell’attualità veniva allora effettuata mediante una rievocazione del mondo
passato. Tale idea è alla base del cd Umanesimo
giuridico che vide l’irruzione di questo amore per l’antico nel panorama
consolidato delle fonti del diritto romano così come inserite e studiate
nell’ambito del ius commune. Si
riscoprì, perciò, una cura nella ricostruzione del testo antico originario,
coadiuvata dalla filologia. Questa
consentiva al letterato di identificare, attraverso lo studio della lingua,
l’epoca in cui il testo era stato scritto e quindi l’autenticità o meno di
esso. Uno dei più famosi filologi del quattrocento fu Lorenzo Valla che operò,
criticandolo, sul testo del Digesto nella versione della Vulgata individuandone
tutte le cd “varianti”, gli errori
di copiatura che non solo erano molto frequenti ma, a volte, risultavano
determinanti.
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La critica filologica del Digesto fu resa possibile grazie anche al suo
confronto con il manoscritto di epoca giustinianea conservato a Pisa e fatto
oggetto di bottino una volta che la città venne conquistata dalla stirpe
medicea: le Pandette Fiorentine.
L’inizio della critica filologica, dettato dall’amore per l’antico risultò,
tuttavia, essere distruttivo dell’impalcatura logica e concettuale su di essa
costruita dalla vecchia scienza giuridica. Essa fu, pertanto, fortemente
osteggiata dalle università italiane e molti dei giuristi ed intellettuali che
si dedicarono alla nuova “scienza filologica” dovettero trasferirsi, fondando
una nuova scuola a Bourges. Si contrapposero così due nuovi approcci al
diritto: quello di vecchio stampo universitario che prese il nome di Mos Italicus, e quello caratterizzato
dallo spirito di critica filologica del testo di legge, conosciuto come Mos Gallicus.
A cura di Chiara Casuccio
A cura di Chiara Casuccio
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