mercoledì 23 novembre 2016

Lezione del 22 novembre 2016 CON VIDEO

Alla letteratura giuridica di stampo accursiano standardizzatasi nel sistema di copiatura noto come exemplar et pecia si affiancò progressivamente un altro genere di letteratura in cui, adottando il modello delle quaestiones, il contatto tra la pratica e la dottrina divenne prevalente. Il modello del testo giuridico si spostò fino a rispondere a regole sistematiche differenti: le opere venivano organizzate sviluppando le problematiche che il caso concreto “attraeva a sé”; grazie al metodo casistico si riusciva, così, a mobilizzare la forza del testo normativo per applicarla anche a fattispecie concrete non previste dalla norma stessa ma alle quali si applicava la stessa ratio. Ne derivò il successo di raccolte di questiones coerenti per argomento, che assunsero il nome di Tractatus.
Probabilmente influenzato dalla scolastica filosofica medievale, si amplificò, quindi, l’uso della quaestio. La scienza medievale tout court, prima teologica e poi anche giuridica, vantava un metodo improntato all’applicazione della razionalità della regola generale ai problemi pratici che di volta in volta sorgevano, mediante la ricerca dei motivi che avevano mosso il legislatore a promulgare una determinata norma e la loro applicazione, in via analogica, a fattispecie non previste ma rispondenti alla medesima logica. A Orléans nacque una scuola che sviluppò un metodo nuovo, poi denominato dalla storiografia giuridica come “commento”, che riprese le logiche, tipicamente filosofiche, di conoscenza mediante l’indagine sulle cause aristoteliche e le applicò allo studio del testo legislativo. La “scuola del commento” deriva il proprio nome dalla forma che assunsero i testi da essa prodotti, che erano letture del testo normativo scritte in volumi separati rispetto ad esso, e dunque libere di ampliare il commento senta i limiti di spazio imposti alle glosse. Tuttavia, la principale caratteristica di questo nuovo insegnamento si riscontra nel diverso atteggiamento con cui il giurista si accostava al diritto: egli era pienamente consapevole dell’entità della forza della norma giuridica, tale da poter essere applicata ad un numero indefinito di fattispecie rispetto a quella base prevista dal testo, grazie all’appena menzionato metodo analogico.
In particolare, i “commentatori” riservarono particolare riguardo al problema della vincolatività della norma giuridica la quale traeva il suo potere di coercizione dalla qualificazione formale di essere stata emanata dal legislatore. In altre parole, ciò che faceva di un testo qualunque una norma era l’esser stato prodotto dalla volontà del legislatore. La loro indagine, dunque, si incentrò proprio sull’elemento della volontà che, quanto fatto umano, ben si prestò ad essere sottoposto all’analisi-per-cause disegnata dalla dottrina aristotelica della conoscenza degli atti umani, il cui studio in epoca basso medievale venne filtrato dai testi di Boezio che la riprendevano. I principali strumenti di conoscenza della volontà del legislatore e, dunque delle rationes legis, divennero la causa efficiente e la causa finale.
Il principale dei commentatori di scuola francese, Jacques de Révigny (attivo tra 1260 e 1280), applicò l’idea della causa finale alla legislazione al fine di ricercare lo scopo che aveva spinto il legislatore alla promulgazione di una data norma. Si assiste ad un ribaltamento di prospettiva rispetto all’atteggiamento degli antichi compilatori del passato, i quali non si fecero scrupoli a falsificare i testi per inserire nelle loro opere una regola colma di veritas ma difettante di auctoritas. I nuovi giuristi che consideravano la vincolatività della norma derivante dalla sua qualificazione formale, si concentrarono ad analizzare il significato di ogni regola del testo legislativo, anche di quelle apparentemente insensate, sul presupposto che ognuna di esse fosse stata emanata da chi deteneva il potere legislativo in vista di un determinato scopo ed effetto: il loro compito era, dunque, di individuarlo per estrarre dalla norma la “giustizia intrinseca” di cui era portatrice ed applicarla a tutta la gamma di fattispecie che la condividevano con essa.
Il nuovo metodo raggiunse molto successo, dapprima in Francia e poi anche in Italia, soprattutto a Perugia. I principali esponenti della scuola italiana del commento furono:
-       Cino da Pistoia. Giurista e poeta, molto influenzato dall’allievo di Jacques de Révigny, Pierre de Belleperche. 
-       Bartolo da Sassoferrato. La cui fama fu così elevata che lo portò, nei secoli successivi, a fungere da discrimen in caso di controversie tra i giuristi discordanti. Tra i molti lavori, degno di menzione è il suo Tractatus de Tyranno.
-       Baldo degli Ubaldi o Baldeschi. Pur essendo un civilista, cominciò una lettura del Liber extra. Compose, inoltre, un commento ai Libri Feudorum ed effettuò una serie di additiones allo Speculum Iudiciale di Durante.

La grande rinascita del diritto romano aveva provocato, con un certo ritardo la nascita del diritto canonico il quale non era più “lex” ma “ius”, un sistema, cioè, coordinato e più o meno completo di norme. I due sistemi, quello romano e quello canonico, poi, si influenzarono vicendevolmente nell’età del Ius Commune. Soprattutto nel campo del diritto privato, questa influenza reciproca provocò profonde modificazioni agli istituti classici di diritto giustinianeo. Tali modificazioni erano dettate dalla necessità di adattamento alla nuova società e realtà medievali e gettarono le basi per molti istituti del diritto borghese moderno. Cerchiamo di vederne un paio:
1. Teoria della personalità giuridica. Nel mondo medievale, l’accumulo di grandi quantità di ricchezza in capo ad enti ecclesiastici indusse i giuristi a chiedersi se fosse possibile configurare un soggetto titolare di diritti diverso dalla persona fisica, unico soggetto giuridico del mondo romano. Circa un secolo prima della formulazione della teoria definitiva ad opera di papa Innocenzo IV, fu l’arcivescovo Mosè di Ravenna che formulò in termini giuridici la regola da sempre adottata dalla Chiesa. Egli, nel porsi il problema di che fine avrebbero fatto i beni di un monastero rimasto abbandonato da tutti i monaci, prospettò tre soluzioni differenti, le quali corrispondevano a tre modi diversi di concepire la proprietà ecclesiastica: proprietà ecclesiastica come dote, che una volta “morto” il “marito”  (= una volta che tutti i monaci avevano lasciato il monastero), ritornava all’antico donante; proprietà ecclesiastica come appartenente alle persone fisiche dei monaci, che in caso di morte di tutti loro, sarebbe stata incorporata nel fisco papale in quanto res nullius; proprietà dei beni in capo alle mura dell’ente, rectius, al luogo sacro su cui il monastero era stato costruito. Tale teoria, abbracciata dallo stesso Mosè, venne duramente criticata dai glossatori civilisti, in ragione della mancanza, nel soggetto-edificio, di un’anima capace di fargli esprimere un valido animus possidendi necessario al possesso dei beni da un lato, ed una valida volontà necessaria agli atti dispositivi di essi, dall’altro. Questo avrebbe provocato una cristallizazione della ricchezza. La soluzione venne trovata, come accennato, da papa Innocenzo IV che formulò per la prima volta la teoria della persona ficta. Una finzione, tipico strumento di diritto romano, avrebbe permesso al monastero di disporre dei propri beni permettendogli di esprimere la propria volontà mediante un meccanismo di votazione dei monaci che lo abitavano.
2. Evoluzione dell’istituto dell’investitura-gewere. L’ambito in cui, in particolare, trovò posto l’investitura nell’epoca del diritto comune, fu il possesso. Il concetto romano di fatto che rispecchia un diritto reale, venne modificato fino ad essere trasformato in una forma evoluta di investitura, con la conseguenza che si sarebbero potute possedere non solo cose materiali, ma anche diritti di credito o funzioni giurisdizionali. Il principale effetto di una tale rivoluzione consiste nel ribaltamento dell’onere della prova per qualsiasi tipo di diritto e/o prerogativa: chi appariva titolare del diritto in quanto lo esercitava di fatto non avrebbe dovuto provare alcunché, spettando la prova della diversa titolarità di esso in capo a chi si asseriva il vero titolare. La probatio della proprietà, tuttavia, si rivelava il più delle volte diabolica per cui il risultato di ciò fu una sempre più stabilizzazione dei rapporti sociali. La deformazione del possesso contribuì a mutare il panorama dei diritti privati, che si trovò a divergere fortemente dal diritto privato romano. Le posizioni creditorie vennero perciò configurate alla stessa stregua di cose rendendosi più facile la loro circolazione.

-->
A cura di Chiara Casuccio

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Professore volevo farLe presente che in questa lezione il Tractatus de Tyranno è attribuito a Cino da Pistoia e non a Bartolo da Sassoferrato

Emanuele Conte ha detto...

Ho corretto, grazie

Anonimo ha detto...

Gentile professore, c'è un limite massimo di righe da rispettare per la risposta d'esame? Grazie mille

Anonimo ha detto...

Ma il riassunto della lezione di ieri?