Alla letteratura giuridica di stampo accursiano standardizzatasi nel
sistema di copiatura noto come exemplar
et pecia si affiancò progressivamente un altro genere di letteratura in
cui, adottando il modello delle quaestiones, il contatto tra la pratica e la dottrina divenne prevalente. Il
modello del testo giuridico si spostò fino a rispondere a regole sistematiche
differenti: le opere venivano organizzate sviluppando le problematiche che il
caso concreto “attraeva a sé”; grazie al metodo casistico si riusciva, così, a
mobilizzare la forza del testo normativo per applicarla anche a fattispecie
concrete non previste dalla norma stessa ma alle quali si applicava la stessa ratio. Ne derivò il successo di raccolte
di questiones coerenti per argomento,
che assunsero il nome di Tractatus.
Probabilmente influenzato dalla scolastica filosofica medievale, si
amplificò, quindi, l’uso della quaestio. La scienza medievale tout court, prima teologica e poi anche
giuridica, vantava un metodo improntato all’applicazione della razionalità
della regola generale ai problemi pratici che di volta in volta sorgevano,
mediante la ricerca dei motivi che avevano mosso il legislatore a promulgare
una determinata norma e la loro applicazione, in via analogica, a fattispecie
non previste ma rispondenti alla medesima logica. A Orléans nacque una scuola che sviluppò un metodo nuovo, poi
denominato dalla storiografia giuridica come “commento”, che riprese le logiche, tipicamente filosofiche, di
conoscenza mediante l’indagine sulle cause aristoteliche e le applicò allo
studio del testo legislativo. La “scuola del commento” deriva il proprio nome
dalla forma che assunsero i testi da essa prodotti, che erano letture del testo
normativo scritte in volumi separati rispetto ad esso, e dunque libere di
ampliare il commento senta i limiti di spazio imposti alle glosse. Tuttavia, la
principale caratteristica di questo nuovo insegnamento si riscontra nel diverso
atteggiamento con cui il giurista si accostava al diritto: egli era pienamente
consapevole dell’entità della forza della norma giuridica, tale da poter essere
applicata ad un numero indefinito di fattispecie rispetto a quella base
prevista dal testo, grazie all’appena menzionato metodo analogico.
In particolare, i “commentatori” riservarono particolare riguardo al
problema della vincolatività della norma giuridica la quale traeva il suo
potere di coercizione dalla qualificazione formale di essere stata emanata dal
legislatore. In altre parole, ciò che faceva di un testo qualunque una norma
era l’esser stato prodotto dalla volontà del legislatore. La loro indagine,
dunque, si incentrò proprio sull’elemento della volontà che, quanto fatto
umano, ben si prestò ad essere sottoposto all’analisi-per-cause disegnata dalla
dottrina aristotelica della conoscenza degli atti umani, il cui studio in epoca
basso medievale venne filtrato dai testi di Boezio che la riprendevano. I
principali strumenti di conoscenza della volontà del legislatore e, dunque
delle rationes legis, divennero la causa efficiente e la causa
finale.
Il principale dei commentatori di scuola francese, Jacques de Révigny (attivo tra 1260 e 1280), applicò l’idea
della causa finale alla legislazione al fine di ricercare lo scopo che aveva
spinto il legislatore alla promulgazione di una data norma. Si assiste ad un
ribaltamento di prospettiva rispetto all’atteggiamento degli antichi
compilatori del passato, i quali non si fecero scrupoli a falsificare i testi
per inserire nelle loro opere una regola colma di veritas ma difettante di auctoritas.
I nuovi giuristi che consideravano la vincolatività della norma derivante dalla
sua qualificazione formale, si concentrarono ad analizzare il significato di
ogni regola del testo legislativo, anche di quelle apparentemente insensate,
sul presupposto che ognuna di esse fosse stata emanata da chi deteneva il
potere legislativo in vista di un determinato scopo ed effetto: il loro compito
era, dunque, di individuarlo per estrarre dalla norma la “giustizia intrinseca” di cui era portatrice ed applicarla a tutta la
gamma di fattispecie che la condividevano con essa.
Il nuovo metodo raggiunse molto successo, dapprima in Francia e poi anche
in Italia, soprattutto a Perugia. I
principali esponenti della scuola italiana del commento furono:
-
Cino da Pistoia. Giurista e
poeta, molto influenzato dall’allievo di Jacques de Révigny, Pierre de Belleperche.
-
Bartolo da
Sassoferrato. La cui fama fu così elevata che lo portò, nei secoli
successivi, a fungere da discrimen in
caso di controversie tra i giuristi discordanti. Tra i molti lavori, degno di menzione è il suo Tractatus de Tyranno.
-
Baldo degli
Ubaldi o Baldeschi. Pur essendo un
civilista, cominciò una lettura del Liber extra. Compose, inoltre, un commento
ai Libri Feudorum ed effettuò una serie di additiones
allo Speculum Iudiciale di Durante.
La grande rinascita del diritto romano
aveva provocato, con un certo ritardo la nascita del diritto canonico il quale
non era più “lex” ma “ius”, un sistema, cioè, coordinato e più
o meno completo di norme. I due sistemi, quello romano e quello canonico, poi,
si influenzarono vicendevolmente nell’età del Ius Commune. Soprattutto nel campo del diritto privato, questa
influenza reciproca provocò profonde modificazioni agli istituti classici di
diritto giustinianeo. Tali modificazioni erano dettate dalla necessità di
adattamento alla nuova società e realtà medievali e gettarono le basi per molti
istituti del diritto borghese moderno. Cerchiamo di vederne un paio:
1. Teoria
della personalità giuridica. Nel mondo medievale, l’accumulo di grandi
quantità di ricchezza in capo ad enti ecclesiastici indusse i giuristi a
chiedersi se fosse possibile configurare un soggetto titolare di diritti
diverso dalla persona fisica, unico soggetto giuridico del mondo romano. Circa
un secolo prima della formulazione della teoria definitiva ad opera di papa
Innocenzo IV, fu l’arcivescovo Mosè di
Ravenna che formulò in termini giuridici la regola da sempre adottata dalla
Chiesa. Egli, nel porsi il problema di che fine avrebbero fatto i beni di un
monastero rimasto abbandonato da tutti i monaci, prospettò tre soluzioni
differenti, le quali corrispondevano a tre modi diversi di concepire la
proprietà ecclesiastica: proprietà ecclesiastica come dote, che una volta
“morto” il “marito” (= una volta che
tutti i monaci avevano lasciato il monastero), ritornava
all’antico donante; proprietà ecclesiastica come appartenente alle persone
fisiche dei monaci, che in caso di morte di tutti loro, sarebbe stata
incorporata nel fisco papale in quanto res
nullius; proprietà dei beni in capo alle mura dell’ente, rectius, al luogo sacro su cui il
monastero era stato costruito. Tale teoria, abbracciata dallo stesso Mosè,
venne duramente criticata dai glossatori civilisti, in ragione della mancanza,
nel soggetto-edificio, di un’anima capace di fargli esprimere un valido animus possidendi necessario al possesso
dei beni da un lato, ed una valida volontà necessaria agli atti dispositivi di
essi, dall’altro. Questo avrebbe provocato una cristallizazione della
ricchezza. La soluzione venne trovata, come accennato, da papa Innocenzo IV che
formulò per la prima volta la teoria
della persona ficta. Una finzione, tipico strumento di diritto romano,
avrebbe permesso al monastero di disporre dei propri beni permettendogli di
esprimere la propria volontà mediante un meccanismo di votazione dei monaci che
lo abitavano.
2. Evoluzione dell’istituto
dell’investitura-gewere. L’ambito in cui, in particolare, trovò posto
l’investitura nell’epoca del diritto comune, fu il possesso. Il concetto romano
di fatto che rispecchia un diritto reale, venne modificato fino ad essere
trasformato in una forma evoluta di investitura, con la conseguenza che si
sarebbero potute possedere non solo cose materiali, ma anche diritti di credito
o funzioni giurisdizionali. Il principale effetto di una tale rivoluzione
consiste nel ribaltamento dell’onere della prova per qualsiasi tipo di diritto
e/o prerogativa: chi appariva titolare del diritto in quanto lo esercitava di
fatto non avrebbe dovuto provare alcunché, spettando la prova della diversa
titolarità di esso in capo a chi si asseriva il vero titolare. La probatio della proprietà, tuttavia, si
rivelava il più delle volte diabolica
per cui il risultato di ciò fu una sempre più stabilizzazione dei rapporti
sociali. La deformazione del possesso contribuì a mutare il panorama dei
diritti privati, che si trovò a divergere fortemente dal diritto privato
romano. Le posizioni creditorie vennero perciò configurate alla stessa stregua
di cose rendendosi più facile la loro circolazione.
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A cura
di Chiara Casuccio
4 commenti:
Professore volevo farLe presente che in questa lezione il Tractatus de Tyranno è attribuito a Cino da Pistoia e non a Bartolo da Sassoferrato
Ho corretto, grazie
Gentile professore, c'è un limite massimo di righe da rispettare per la risposta d'esame? Grazie mille
Ma il riassunto della lezione di ieri?
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