Grazie al lavoro delle due scuole, nel XIII secolo si affiancarono due
complessi legislativi che operavano all’interno del sistema dell’utrumque ius: il Corpus Juris Civilis ed il Corpus
Juris Canonici, una raccolta solo lato
sensu normativa, poiché il Decretum era stato trasformato in una sorta di
Codice artificialmente dalla scuola, che aveva bisogno di un testo stabile su
cui elaborare il sistema di congiunzioni di norme su cui si basava il metodo
dialettico.
La scienza canonistica, poi, a partire dalla lettura del proprio Corpus,
promosse l’integrazione di questo con i principi di diritto romano: gli
strumenti intellettuali elaborati grazie all’approfondimento del diritto romano
giustinianeo, infatti, rimanevano validi ed utili per tutti i giuristi, sia
civilisti che canonisti. Nell’ambito di questa integrazione, tuttavia, la
logica classica venne toccata fino a rimodularsi sulla base di quella cristiana
e tipicamente medievale. Il canonista che realizzò a pieno questa integrazione
fu Enrico da Susa, l’Ostiense.
Il Cardinale Ostiense fu anche uno dei principali fautori delle dottrine ierocratiche. Tali dottrine
postulavano l’idea che il potere fosse stato conferito da Cristo, che in quanto
Dio in terra ne era l’unico depositario, interamente al proprio vicario, il
papa, ed era questi che, per delega, ne avrebbe potuto conferire parte
all’imperatore. Esse si incrementarono nel corso del duecento, in concomitanza
con i noti avvenimenti storici di duro conflitto tra papato ed il casato di
Svevia, e raggiunsero la loro formulazione più compiuta con Bonifacio VIII, al secolo Benedetto
Caetani, papa e giurista.
Bonifacio si rese autore di un codice, il Liber Sextus, la cui particolarità – a parte il nome- risiede in ciò: accanto alle classiche
decretali, cioè la parte generale ed astratta di una legislazione nata in
ambito “casistico”, il papa vi inserì una serie di costituzioni, di norme,
scritte e promulgate per il codice stesso. Da buon giurista, papa Caetani si preoccupò,
così, di dare soluzione a materie che erano notoriamente oggetto di
controversia tra i giuristi. Egli, inoltre, confermando la ricordata tendenza
all’integrazione, chiese ad un professore di diritto civile, Dino del Mugello, di redigere il titolo De regulis juris per la costruzione di
regole generali che potessero reggere il sistema del diritto canonico.
Proprio nel momento in cui le dottrine ierocratiche sembravano aver trovato
conferma nelle vicende storiche di fine ‘200 e l’Europa tutta subiva il
controllo del potere pontificio, si assistette alla tanto inaspettata quanto
ingloriosa fine del sogno universalista della Chiesa. Il vero pericolo
dell’universalismo pontificio, tuttavia, non si rivelò essere l’impero ma la
suddivisione dell’Europa in regni, antichi alleati della sede romana. Si dice
che fu proprio il re di uno di questi regni, Filippo di Francia detto il Bello,
a determinare la fine del pontificato di Bonifacio VIII, il quale morì nel
1303, un anno dopo l’episodio noto come “schiaffo di Anagni”.
Bonifacio VIII fu l’ultimo papa a rappresentare la centralità e
l’indipendenza della sede pontificia. Dopo questa rottura, infatti, lo
spostamento ad Avignone della sede
di Roma, che da sempre era sfuggita alle logiche di appropriazione da parte di
poteri esterni, determinò il controllo diretto di essa da parte del regno di
Francia. Il periodo di “cattività” durò dal 1309 al 1377 e si concluse con il
grande scisma d’occidente, a cui
pose fine definitiva il Concilio di Costanza 1414-1418.
Dal punto di vista giuridico, tuttavia, il periodo Avignonese fu una fucina
di elaborazioni che toccarono temi di diritto, poi trasposte anche negli
ordinamenti laici.
Una delle problematiche centrali fu quella riguardante la cd plenitudo potestatis. L’indagine si
incentrò sui relativi limiti del diritto, inteso come complesso di norme in cui
viene inserita la norma nuova, e della facoltà del legislatore di derogare a
tale ordinamento.
Altra innovazione di questo periodo fu il riordinamento del Tribunale
supremo della Chiesa. La costituzione Ratio
Juris del 1331 fornì il tribunale della Sacra Rota di una nuova procedura e regolamentazione. Due furono le
principali novità: la costituzione di un collegio
giudicante i cui componenti venivano scelti tra giuristi di chiara fama e
la procedura di decisione che prevedeva la delega del caso ad un magistrato referente il quale studiava
la fattispecie, e la riferiva al collegio che doveva, a sua volta, approvarne
la risoluzione. Il risultato fu l’elaborazione di sentenze particolarmente motivate
in fatto e in diritto; questo rendeva più facilmente rintracciabili le rationes poste alla base della
decisione, rispetto ad un passato in cui l’attività di motivazione giuridica della
sentenza rimaneva esterna al giudizio, dovendosi ricercare nel consilium sapientis iudiciale dato al
giudice-delegato della regalia sovrana da un giurista appositamente consultato.
L’esempio della chiesa fu seguito anche dai regni laici i quali si dotarono
di Tribunali centrali sul modello di quello della Sacra Rota.
Il più famoso canonista del XIV secolo è Giovanni d’Andrea le cui opere rappresentano il punto di
riferimento di tutte le dottrine dell’epoca. Una dei suoi lavori principali è il
commentario all’opera di Guillaume Durand, Speculum
Iudiciale. Questo era una raccolta in quattro libri di tutte le fattispecie
che si potevano incontrare in ambito processuale, sia di diritto civile che di
diritto canonico. Il francese, nello spiegare, per ogni fattispecie, che tipo
di azione esperire e le linee sostanziali degli istituti coinvolti, aveva
operato riportando pezzi di opere di giuristi a lui precedenti; Giovanni
d’Andrea si preoccupò di identificare la paternità di ogni stralcio riportato.
Il Concilio di Costanza aveva, inoltre, introdotto tra le principali
discussioni di diritto pubblico una nuova tematica: la questione della
prevalenza del concilio sul papa – e la conseguente diversa concezione della
derivazione del potere. Principale sostenitore della teoria conciliarista fu il
canonista Francesco Zabarella.
A cura di Chiara Casuccio
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