Come stipulato a lezione io sono indirizzato per l'amministrazione francese, in particolar modo del libro che ho già recuperato presso la facoltà di lettere a roma tre, intitolato intendenti e prefetti: L'intendente provinciale nella francia di antico regime 1551-1648, di Adriana Petracchi.Vi riporto l'argomento su cui sarei intenzionato a fare la relazione così evitiamo di sovrapporci all'esposizione di mercoledì. L'argomento è il seguente: Intendenti d'armata e di provincia nella seconda metà del secolo XVI.(capitolo terzo)
Dal 500 (fine dell’Evo medio e inizio Evo moderno) gli ordinamenti territoriali estendono i loro scopi dall’ambito della pura “giustizia” a quello dell’ “amministrazione. Il potere supremo cessa di svolgere solo il ruolo di giudice/giustiziere per assegnarsi una quantità di compiti precedentemente espletati solo in via occasionale. Gli enti politici non si limitano a raccogliere grandi eserciti e risorse correlative, ma iniziano a farsi carico dell’organizzazione della società a cui sono preposti in vari modi: sviluppando una politica economica, garantendo livelli minimali di sicurezza per le persone e le cose, avocando istituzioni religiose e culturali, prevenendo rischi sociali come carestie, epidemie, vagabondaggio ecc.. Differenza fondamentale con il modo di amministrare contemporaneo è che tale funzione non viene espletata da uno Stato unitario, ma da un conglomerato di altri soggetti uniti tra loro e al principe sovrano da una fitta rete di vincoli para-contrattuali. Lo Stato di allora si presenta come una aggregazione federativa, un contenitore di una pluralità di organismi diversi, ciascuno portatore di un interesse collettivo rilevante, che non derivano la loro identità istituzionale da un atto creativo del sovrano, bensì da una propria autorganizzazione, per lo più risalente al medio evo. Questa Società Corporativa cresce e si sviluppa con l’Autorità statale, avvinta in un abbraccio strettissimo che si scioglierà solo con la Rivoluzione e l’avvento dello Stato liberale. Riassumendo: il primo carattere dell’amministrazione nella fase della sua preistoria è di non essere una , ma tante quanti sono i centri di imputazione degli interessi collettivi in gioco. Centri che a loro volta non esistono per una volontà del potere centrale, ma in virtù di un loro diritto originario. Il primo dato che colpisce, pertanto, l’osservatore di questo scenario è l’esistenza di una marcata dicotomia tra due livelli di amministrazione ben distinti, con due statuti giuridici diversi, anche se destinati ad integrarsi reciprocamente. 1. Auto-amministrazione o amministrazione dei governati, caratterizzata dalla società corporata. Lo statuto che disciplina questo tipo di amministrazione è tendenzialmente consensualistico, si fonda sull’auto –amministrazione affidata ai membri dei corpi ed è fondata su una reciproca e formale equiparazione. L’amministrazione corporativa è affine all’amministrazione della “casa domestica” affidata al paterfamilias ( le comunità non erano altro che aggregati permanenti di più famiglie in vista del soddisfacimento di bisogni non quotidiani). Caratteristica saliente delle organizzazioni dei governati è quella di non essere titolari di alcun diritto potestativo. Tale consapevolezza è già espressa dai giuristi del 300. Bartolo da Sassoferrato: il popolo (ordinamento territoriale) sia esso città villaggio rurale, corporazione professionale o altro per il solo fatto di soggiacere ad un altro soggetto istituzionale lo spoglia di ogni potestà imperativa. La sola capacità che gli è riconosciuta è puramente “privatistica” di gestire i suoi interessi patrimoniali. Ogni corpo o comunità è considerato alla stregua di una persona giuridica (universitas) legittimata a compiere atti accessibili ad ogni individuo: acquistare o alienare proprietà, agire o essere convenuto in giudizio, contrarre obbligazioni ecc..
Gli Statuti operativi della società corporata tra il 500 e il 600 acquisiscono una sorta di autonomia disciplinare nota come “ius universitatum” ad opera di della dottrina ( trattato del 1601 di Nicolò Loseo, magistrato savoiardo ) e delle giurisprudenza. Le regole inerenti la formazione della volontà si ispirano al principio consensualistico: ogni componente è chiamato ad esprimere il suo giudizio in merito all’oggetto d’interesse collettivo ed è richiesta l’unanimità per le decisioni di maggiore spessore. Ma, attenzione, la logica di tale tipo di amministrazione non è di tipo “democratico” perché la natura privatistica di questi organismi ne fa degli spazi ferocemente chiusi ai quali si accede solo con l’accettazione di coloro che già ne fanno parte.Si tratta certo di statuti ricchi di “norme speciali” rispetto a quelle disciplinanti la vita delle persine fisiche, non solo perché la formazione della volontà ed il regime della responsabilità richiedevano una regolamentazione specifica, ma anche al fine di attribuire a corpi e comunità tutta una serie di privilegi nei rapporti con i terzi per proteggerli dalla eventuale malafede degli amministratori e salvaguardare al meglio gli interessi di cui erano portatori . Benché privilegiati essi però erano sprovvisti di potestà imperativa e se qualcuno non riconosceva spontaneamente determinati diritti, essi potevano solo agire in giudizio per avere soddisfazione.
Riassumendo il mio discorso che mercoledì mi porterà a parlare dell'amministrazione in Francia, nello stato premoderno: -Una parte notevole della gestione degli interessi collettivi era disciplinato da uno statuto legale non distinto da quello che regolava le relazioni tra privati. -Tanto le amministrazioni corporative quanto quella fiscale erano caratterizzate da forti specialità che squilibravano il rapporto a favore della parte pubblica. -Le prerogative del fisco, tuttavia non potevano comprimere totalmente e unilateralmente i diritti dei terzi., idem per i corpi organizzati. -separare l’amministrazione autoritativa dell’antico regime da quella contemporanea è che la prima non è scorporabile dalla giustizia, essa è giustizia e per questo non può essere ancora oggi considerata come funzione autonoma.
Invito anche gli altri a lasciare una sintesi di quanto esporanno in aula questa settimana.
Brevi osservazioni utili per tutti:
Rielaborare sempre a parole vostre i concetti espressi nei testi che state consultando e citate l'autore di una certa tesi.
Quando poi riportate il pensiero di giuristi antichi senza averne letto le opere, ricordate sempre di premettere il nome dello studioso (ad es. Mannori) che ha interpretato la fonte in quel modo. Diversamente, potrebbe sembrare che avete letto direttamente la fonte originale.
Per una condivisione delle temastiche che ersporro il prossimo giovedì a lezione,di seguito metto a disposizione un indice degli argomenti e un riassuntoche riguardano: 1. I meccanismi della fiscalità nel regno di Napoli 2. L’acquisto della percettoria di Terra di Bari.
Il testo preso in considerazione è “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo, di Giuseppe Patisso, professore aggregato all’Università del Salento, Dipartimento di studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea.
Nel Regno di Napoli il prelievo tributario era articolato con un sistema fiscale misto di imposte dirette ed indirette. Le imposte dirette si caratterizzanvano, a loro volta, in tributi avente carattere ordinario (funzione fiscale e adoha) e straordinario (donativi e valimenti). Le imposte indirette erano costituite da dazi doganali, diritti di fondaco, gabelle, monopoli, diritti da uffici e sigilli. La procedura con la quale si fissava un’imposta diretta si svolgeva in tre momenti distinti: 1) Rilevazione ed esami dei dati patrimoniali nell’ambito della rilevazione dei fuochi; 2) Quantificazione in once della capacità contributiva degli individui; 3) Tassazione. Caratteristica della riscossione delle imposte era che queste venivano riscosse in metallo pregiato (argento), mentre le imposte erano generalmente fissate con importi espressi in moneta di bassa lega, grana o cavalli. Ne conseguiva, pertanto, che sulle università gravava l’onere, oltre che della riscossione, del cambio in argento del denaro versato dai contribuenti in moneta debole, fatto che produceva una ulteriore sopratassa data dallo scarto esistente tra il valore intrinseco dell’argento e quello delle monete in rame. Il rilevamento catastale era il sistema di riscossione più diffuso nel Napoletano. L’unità di tassazione era costituita dal fuoco, che rappresentava l’unità familiare. Attraverso una rivela ogni capofamiglia doveva dichiarare la composizione del nucleo familiare indicando l’età il sesso e l’attività lavorativa. La veridicità della rivela veniva accertata dagli apprezzatori comunali che redigevano un libro catastale fissando la base imponibile di ciascuna unità focolare, sulla quale veniva applicata l’aliquota d’imposta (variabile di anno in anno a seconda delle necessità). In caso di dubbi sui dati patrimoniali dichiarati nella rivela, il capitano (rappresentante in loco del potere centrale), assieme agli apprezzatori delle universitates, procedeva alla valutazione dei singoli casi. Anche a quel tempo esisteva una esenzione fiscale totale che riguardava: - Ecclesiastici di ogni grado; - Nullatenenti disoccupati; - Capifamiglia con almeno 12 figli a carico; e parziale: - Sessagenari; - Nobili o chi viveva more nobilium; - Apprendisti. In questo contesto, il ruolo finanziario svolto dalle universitates risultava di fondamentale importanza, svolgendo un’azione di intermediazione tra le strutture centrali (ministeri finanziari) e quelle periferiche (percettori).
Con l’analisi delle vicende e delle attività dei personaggi legati alla percettoria di Terra di Bari nei primi anni del XVI secolo, si possono riscontrare le caratteristiche e rilevare le criticità che riguardavano un po’ tutte le percettorie diffuse sul territorio nell’epoca. I documenti ritrovati, a seguito della visita effettuata da Juan Beltràn de Guevara, illustrano i modi di esazione, l’organizzazione della percettoria, il comportamento del precettore e dei suoi collaboratori e la rete di amicizie e parentele che si articolavano intorno alla percettoria. Tramite questo ufficio veniva svolta la funzione di osservatore economico, in quanto poteva effettuare un completo controllo sulle entrate annue, assicurando, in questo modo, anche ai piccoli risparmiatori la possibilità di un buon investimento. Durante l’interrogatorio effettuato dai commissari del visitatore emerse che Muzio de Angelis pretendesse dalle università denaro in prestito senza mai più restituirlo. Le stesse università dovevano pagare ai commissari la somma di 16 carlini al giorno (denaro diviso tra il percettore e i commissari) al posto dei 3 carlini previsti dalla norma in vigore. Estorsioni e soprusi erano serbati anche ai privati, ai quali venivano sequestrati beni con la possibilità di riscattarli dietro pagamento. Nulla impediva ai commissari di turno di ripetere il sequestro per qualsiasi motivo. 1. Conclusioni L’analisi della struttura e dei meccanismi della fiscalità nel Regno di Napoli mostra una diffusa complessità e ramificazione dettata da quella che è ormai divenuta la necessità di finanziare le sempre maggiori esigenze della Corona. Queste esigenze si scontravano con le difficoltà della minuziosa raccolta, dovute dalle condizioni, dalla molteplicità di culture e dalle distanze che coesistevano nel mondo dell’epoca. La soluzione adottata, se dal punto puramente teorico sembrerebbe la più dettagliata possibile e la sola capace di raggiungere ogni singolo punto del regno, dal punto di vista pratico lasciava il passo a una gestione di tipo privato, libera di agire e senza adeguati meccanismi di controllo. Questa gestione di tipo privato era a discapito di quella raccolta dei tributi la cui entità si vedeva ridotta di passaggio in passaggio prima dell’arrivo alle casse della Corte che, di conseguenza, potevano raccogliere solo le cosiddette “briciole”.
Fonti: - Giuseppe Patisso, “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo”, Besa editrice 2002; che ha citato: - A. Bulgarelli Lukacs, “L’Imposta diretta nel Regno di Napoli in età moderna”, 1993; - G. Coniglio, “Il Viceregno di Napoli nel sec. XVII”; - R. Mantelli, “Burocrazia e finanze pubbliche nel Regno di Napoli”; - G. Muto, “Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli stati italiani della prima età moderna”, in Origini dello stato;
Indice degli argomenti:
Meccanismo della fiscalità nel Regno di Napoli
- Tipo e definizione delle imposte dirette: Ordinarie Funzioni fiscali Adoha Straordinarie Donativi Valimenti - Tipo e definizione delle imposte indirette: Dazi doganali Diritti di fondaco Gabelle Privative - Rilevamento della base imponibile I fuochi La rivela Le esenzioni L’acquisto della percettoria di Terra di Bari Modalità di acquisto Funzioni svolte La sostituzione Denunce delle università e dei privati Conclusioni
Il testo di cui mi sono occupato è contenuto nel libro di Adriana Petracchi " Intendenti e prefetti: l'Intendente provinciale nella Francia d'antico regime ( 1551-1648). Il libro risali al 1971. Nello specifico mi sono occupato del capitolo intitolato " I nemici degli Intendenti" ( settimo capitolo). A lezione descriverò inizialmente come il sentimento del popolo verso l'Intendente fosse ambivalente: da un lato c'era il risentimento verso che veniva a imporre nuovi tributi, mentre dall'altro era visto con rispetto e ammirazione in quanto con il suo intervento poteva dirimere il disbrigo delle pratiche giacenti. Mi occuperò poi degli scontri che si verificarono tra gli Intendenti e i Governatori e descriverò il primo caso di cui si ebbe notizia: lo scontro tra il mareciallo d'Ornano, Governatore del Delfinato e di Lione, e Pomponne de Bellievre, Intendente di giustizia. Per risolvere la questione intervenne direttamente il re Enrico IV che con una lettera chiarì le reciproche competenze. Per la Petracchi con ogni probabilità al suo comparire sulla scena politico-istituzionasle francese l'Intendente cercò di sovente l'appoggio del Governatore, che era stabilmente affermato e accettato nella regione; mentre in seguito agli estesi poteri di cui l'Intendente potè disporre, tale appoggio gli sembrò superfluo e inoltre dovette tener conto del disegno del governo che mirava a ridurre , tramite la sua figura, i poteri del Governatore. Passerò poi a esaminare l'ostilità che ci fu tra gli Intendenti e gli Officiali del re. Tali scontri avvennero essenzialmente per due motivi: per motivi di prestigio, poichè gli intendenti godevano di un rango maggiore fino a che durava il loro incarico, e per ragioni economiche, date dalle diminuite retribuzioni per gli Officiali causate dai meno numerosi atti d'amministrazione dei quali si occupavano. I nemici più acerrimi degli Intendenti, tuttavia, si dimostrarono essere i togati giureconsulti della Corte del Parlamento di Parigi. Questi erano probabilmente i più duramente colpiti dalla creazione dell'Intendente che minacciava le loro funzioni. Molto presto fecero notare al re il proprio dissenso per l'istituzione di questo nuovo tipo di magistrato inviando numerose lettere di protesta in cui si invitava il sovrano ad abolire la figura dell'Intendente. A tali proteste seguirono varie agitazioni che culmirarono nella rivolta della Fronda del 1648. Tuttavia la rivolta ebbe un successo solo parziale e momentaneo non riuscendo nell'intento di eliminare dalla scena la figura dell'Intendente causa il parere opposto del sovrano. Per la Petracchi tuttavia dopo la rivolta della Fronda la figura dell'Intendente cambiò l'essenza: non più agente straordinario del sovrano, ma strumentio di una razionale e moderna amministrazione accentrata.
Ecco il mio commento al capitolo III del Terzo Libro della République di Jean Bodin - “Dei Magistrati”
In questo capitolo l’obiettivo dell’autore è quello di far piena luce sul potere di tutti i magistrati in ogni sorta di stato.
Tuttavia, se prima non andiamo ad analizzare in termini generali l’opera di Bodin “La République”, rimane difficile capire la motivazione della definizione storico-analitica che egli apporta. Bodin nella sua opera ci fa sapere che nessuno prima di lui, ha saputo cogliere rigorosamente le vere caratteristiche della sovranità; così nel suo elaborato questa diventa argomento cardine attraverso il quale spiega cosa è la res pubblica, perché supportare la forma di governo monarchica, e i vari organi che la compongono, quindi i magistrati. da Commento all’opera di Bodin, Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico […] “non potrebbe sovranità di un funzionario o di un corpo legislativo eletto per un periodo determinato, non si tratterebbe che di magistrati”. E Bodin rimprovera severamente a molti autori di aver confuso magistrati e sovrano.
Nell’esposizione andrò quindi a parlare più nel dettaglio di questa impressionante opera, definita da molti un testamento enciclopedico, per agganciarmi poi attraverso la spiegazione di sovranità alla definizione che Bodin offre circa i magistrati. Ci saranno a questo punto riferimenti etimologici del termine, con una breve ripresa della figura nella storia romana.
La mia relazione verte su due capitoli del libro di ADRIANA PETRACCHI, intitolato INTENDENTI E PREFETTI: L’INTENDENTE PROVINCIALE NELLA FRANCIA DI ANTICO REGIME. I due capitoli che esporrò a lezione riguardano gli intendenti d’armata e di provincia dalla seconda metà del XVI secolo all’inizio del XVII. Il seguente saggio è ambientato in Francia. Durante questo periodo si sono successi diversi troni, ENRICO II 1547-1559, FRANCESCO II 1559-1560, CARLO IX 1560-1574, ENRICO III 1574-1589, ENRICO IV 1589-1610. Prima della nascita di questa nuova figura,ovvero Dell’intendente, l’amministrazione contava oltre al consiglio del re, agli ufficiali giudiziari e di finanza una pluralità di commissari che espletavano funzioni e poteri di diversa natura,soprattutto di controllo verso soggetti a cui era affidato il compito di esercitare funzioni pubbliche delegate dal monarca. Con l’espandersi dei poteri e delle funzioni il re necessitava sempre più di commissari fino a che nel 1555 si ebbe la prima lettera di commissione conferita da ENRICO II a Panisse in Corsica la quale delegava a costui la figura dell’Intendente di giustizia. Figura che constava di una pluralità di funzioni quali ispettive, consultive, sanzionatorie esercitate nell’intera amministrazione di giustizia, e godeva anche di autonomia e indipendenza nei confronti dei giudici di ufficiali di finanza e del consiglio del re. Inoltre il re dava ampia fiducia e discrezionalità all’Intendente tant’è che obbligava tutti i suoi sudditi,tutti i suoi ufficiali giudiziari e finanziari ad ascoltare L’intendente e conformarsi ai suoi ordini. Le funzioni dell’Intendente così come la durata del suo incarico erano stabilite nella lettera di commissione, le prime figure di Intendente espletavano funzioni giuridiche e finanziarie a seconda che erano Intendenti di giustizia o di finanza soltanto dopo pochi decenni iniziarono ad espletare funzioni anche di altra natura. L’intendente di provincia, sia di giustizia sia di finanza o di qualunque altro genere espletava le sue funzioni circoscritte alla provincia riportata nella lettera di commissione. Nel 1586 Enrico III con una lettera a maitre louis revol in Provenza da vita all’Intendente di armata che si differenzia dall’Intendente di provincia sopra descritto non per le funzioni che rimangono le stesse ma per la territorialità. L’intendente di armata esercitava i suoi poteri non nel territorio dove è chiamato ad espletare le predette funzioni ma bensì in una o più province ovunque si trovasse l’armata. Queste figure sia Intendente di provincia che di armata iniziano a diffondersi rapidamente, abbracciando anche diversi ambiti di funzione come l’intendente di marina l’intendente dell’esercito e molti altri. La figura dell’intendente non è ben visto dagli ufficiali giudiziarie e di finanza perché nell’esercizio dei suoi poteri spesso scavalcava, intralciava le funzioni delle autorità giudiziarie e della finanza così da creare tensioni e sgomenti nei confronti del re.
Il testo di cui mi sono occupata è contenuto nel testo: I sei libri dello stato (J.Bodin)soffermandomi con maggiore attenzione sul cap2,libro terzo. Già dalle prime pagine del capitolo l’autore ci presenta queste nuove figure distinguendole in questo modo, l’ufficiale è la persona pubblica che ha una carica ordinaria definita con un editto mentre il commissario è la persona pubblica che ha una carica straordinaria definita con una semplice commissione. Ci sono due tipi di commissari e di ufficiali quelli che hanno potere di comandare, chiamati magistrati, e quelli che fanno giustizia e eseguono gli ordini, entrambi sono persone pubbliche. L’autore ci fa una precisazione, ovvero, questo non vuol dire che tutte le persone pubbliche sono di necessità ufficiali o commissari, pontefici, vescovi, sono persone pubbliche ma non ufficiali in quanto sono state istituite in vista di cose divine o umane. L’ufficiale è una delle parti fondamentali dello stato e non è possibile immaginare uno stato senza ufficiali o commissari. Gli stati si sono serviti prima di commissari che di ufficiali, è magistrato chi ha potere di dare comandi e di fare giustizia. L’ufficiale è una persona pubblica e la parola “ordinaria”lo differenzia dal commissario che ha una carica pubblica “straordinaria” dovuta a circostanze temporanee.
La mia discussione verterà invece sull’istituto della visita, sul suo utilizzo e funzionamento nell’amministrazione dell’Italia spagnola del 500’. Spunti interessanti a riguardo li ho trovati in “Dinamiche istituzionali, risorse di governo ed equilibri di potere nelle "visitas generales" lombarde (1580-1620)” di Mario Rizzo che ho avuto modo di leggere nella raccolta curata da Cecilia Nubola e Angelo Turchini “Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d'Europa: XV-XVIII secolo”. Il Rizzo ci dice infatti che la visita presenta forti similitudini con due istituti giuridici di natura ispettiva che nacquero e si perfezionarono in Spagna a partire dal XIII secolo: la pesquisa e la residencia castigliana o purga de taula aragonese (analizzati da Geltrude Macrì in “Visitas generales e sistemi di controllo regio nel sistema imperiale spagnolo: un bilancio storiografico” e su cui mi soffermerò meglio a lezione) . Nell’Età moderna entrambi questi procedimenti di controllo si andarano progressivamente affievolendo per lasciare spazio alle visitas che, a seconda dell’ampiezza del mandato dei visitatori, potevano essere generales (destinate per lo più all’Italia e alle Indie e aventi ad oggetto la totalità dell’organizzazione amministrativa di un Regno) ed especiales (utilizzate nei territori della penisola iberica nei confronti di istituzioni o funzionari sospettati di aver operato in modo scorretto nell’esercizio delle proprie funzioni). Nella prima metà del 500’, grazie all’intervento di Carlo V, il Regno di Napoli fu la prima provincia italiana a sperimentare quest’inedito istituto che aveva un suo corrispettivo solo nella tradizione ecclesiastica per mezzo delle visite pastorali. Infatti Giuseppe Coniglio in “Visitatori del Viceregno di Napoli” scrive che proprio Carlo V per porre rimedio al cattivo funzionamento degli uffici del Viceregno di Napoli ordinò a dei visitatori generali(magistrati straordinari aventi qualità tecnico-professionali, umane, morali e sociali) di recarsi nelle città, raccogliere le denunce contro quanti erano accusati di essersi resi colpevoli di abusi, ruberie, appropriazioni indebite e meno frequentemente di lesioni personali, violenze, e talvolta di delitti. La visita, più nello specifico, agiva come un tribunale inquisitoriale avente regole codificate da una prassi giuridica antica. Infatti sotto il profilo funzionale e organizzativo sembra esistere una stretta analogia tra visita e Inquisizione, analogia che è stata notata da Giuseppe Patisso in “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo” e ben avvertita nell’Italia spagnola del 500’ dove si considerava la visita generale una formula surrettizia per instaurare nel Regno di Napoli prima e nel Regno delle Due Sicilie e Ducato di Milano poi, un’Inquisizione “che porta la veste criminale al modo dell’Inquisitore di Spagna”. Ancora più pregnante appare poi un’analogia di fondo, individuata sempre da Mario Rizzo e concernente la natura composita che caratterizza tanto le visitas generales quanto le visite pastorali. Come per le visite generali, anche l’attuazione delle visite pastorali, che per citare Cecilia Nubola permettevano di “conoscere per governare”, era influenzata da una pluralità di fattori, quali le istruzioni del vescovo, la personalità e le competenze dei visitatori, le caratteristiche specifiche del territorio visitato, il tempo a disposizione, l’insorgere di problematiche locali.
Di seguito un accenno sull'argomento che esporrò domani a lezione: Fonte: Testo "Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo", di Giuseppe Patisso,professore aggregato di storia moderna presso la facoltà di Storia e Filosofia dell'Università del Salento.
Il Tema che ho scelto di trattare riguarda l'istituto dei poercettori provinciali nel Regno di Napoli, esaminando le origini della figura del percettore, i suoi aspetti giuridici, la struttra delgi uffici in cui essi operavano e gli interventi legislativi riguardanti le percettorie. La presenza dei precettori può essere attestata dai documenti dell’archivio di Stato di Napoli a proposito della Calabria Citra risalenti agli anni ‘40 del Quattrocento: essi, con il passaggio tra dominio aragonese e con lo spagnolo, riuscirono a introdursi all’interno dell’incerto sistema di dominio spagnolo nel mezzogiorno durante i primi 30 anni del 1500. Tuttavia, questo istituto si sviluppò sul vecchio tronco della figura del camerario dell’epoca normanna e sulla successiva ristrutturazione aragonese per fornire una base giuridico-amministrativa all’esigenza di convogliare nelle casse dello Stato i tributi delle università, del ceto feudale e di altre categorie sociali, anche se non tutte le esazioni passavano per le mani dei percettori. Essi riuscirono a consolidare la loro presenza all’interno di una gestione del potere che presentava un incerto confine tra corretto esercizio del servizio pubblico e interesse privato della gestione: non vi era, riguardo ai percettori, una legislazione precisa che ne definisse con, né vi era una razionale sistema di controlli sul loro operato, almeno fino ai primi anni ’30 del 1500. In una simile situazione di mancanza delle verifiche da parte degli organi di controllo amministrativa centrale sulle istituzioni periferiche e la acquisita autonomia dei percettori, questi ultimi non avevano alcun interesse a vedere formalizzato il loro ruolo attraverso una rigida normativa. Tuttavia è con il viceré don Pedro de Toledo iniziò una svolta della politica imperiale nel Mezzogiorno spagnolo: la politica del vicerè si rivolse verso due direzioni: il controllo delle istituzioni del regno e la centralizzazione delle funzioni pubbliche e la questione dei percettori provinciali non risultava essere di secondaria importanza, in quanto titolari dell’azione fiscale periferica e si trasformò, anzi, in un motivo di scontro all’interno dell’amministrazione finanziaria. Il principale problema consisteva nell’assegnare ad una istituzione centrale il controllo diretto dei percettori. Tuttavia, nel 1536 si sperimentò il nuovo sistema di vigilanza articolato in due direzioni: 1) Con l’elezione di Bartolomeo Camerario a conservatore generale del re al patrimonio all’interno della Sommaria; 2) Con l’istituzione della visita generale. Lo stesso anno la Sommaria inviò nuove disposizioni atte a disciplinare l’attività dei percettori: principale obiettivo della Regia Camera era di impedire che il pubblico denaro non fosse utilizzato per speculazioni, prestiti o altre forme di investimento prima di essere versato nelle casse vicereali. Abitudine consolidata dai percettori, infatti, era quella di ritardare i versamenti delle somme raccolte per utilizzarle in investimenti remunerativi, giustificandosi di fronte alla Sommaria affermando che la colpa del mancato versamento fosse dovuto a ritardi da parte dei contribuenti.
Per quanto riguarda gli aspetti giuridici, la carica del percettore provinciale, durante l’età moderna, non presentava una struttura giuridica ben definita. E la stessa definizione dello status dei percettori sembra non fosse un problema avvertito dalla coscienza dei governanti i quali non vollero o non seppero dare una definizione puntuale della natura e delle attribuzioni di questi uffici. La gestione delle percettori è provinciali era di tipo imprenditoriale, nel senso che lo Stato non essendosi curato di creare una struttura per il prelievo delle imposte dirette, aveva affidato questo compito l’organizzazione privata del percettori.
Per quanto riguarda gli uffici percettori, l’organico della percettoria costituisce solo il vertice di un organismo caratterizzato da una molteplicità di figure a cui è affidata la gestione della vita economica delle province del Mezzogiorno. Queste figure sono rappresentate dal titolare dell’ufficio e dal luogotenente; un cassiere; uno o più scrivani, che tenevano i libri contabili e qualche scrivano e un computante che risiedeva a Napoli per seguire vari problemi dell’ufficio.
Circa gloi interventi legislativi sulle percettorie, tra il 1559 e il 1564, a seguito della visita effettuata dal cardinale Quiroga, furono emanate 13 disposizioni che contemplavano le regole di gestione della contabilità delle percettorie, le pene cui si incorreva per appropriazione o uso indebito del denaro percepito e i modi con cui effettuare il versamento alla cassa della tesoreria generale. Successivamente, tra il 1581 e 1584, un altro visitatore, Lope de Guzman, riuscì a individuare alcuni importanti meccanismi che avrebbero potuto consentire una riforma della figura del percettore: la visita risultò assai severa per molti percettori provinciali e servì al visitatore per formulare alcune considerazioni sulle cause delle malversazioni, soprattutto in occasione dell’acquisto dell’ufficio percettorile, dove, secondo Guzman, tale pratica favoriva gli speculatori a danno degli investitori onesti, tanto che per i profittatori l’acquisto dell’ufficio rappresenta una grossa occasione di guadagno consentiva loro di saldare il debito contratto per l’acquisto di quest’ultimo di utilizzare la carica per appropriarsi di illeciti emolumenti. Poco tempo dopo la visita dello stesso Guzman, Madrid formalizzò i propri rilievi che furono prodotti dalla Sommaria in Istruzioni inviate ai percettori, ai tesorieri e commissari delle province del Regno di Napoli e, nel 1584 la Sommaria formulò delle istruzioni rivolte specificatamente percettori provinciali che si articolavano in 44 capi e che disciplinavano fondamentali questioni tendenti a regolamentare l’ufficio e la figura del percettore stesso
II. Stipendi ed emolumenti degli “officiali”. Lo storico Chabod, in questo capitolo del libro” Carlo V e il suo impero” analizza le retribuzioni e le condizioni di vita degli officiali a Milano nel Cinquecento. L’autore afferma che, in questo periodo, vi è una tendenza molto forte a preferire il lavoro nei pubblici uffici, ciò sembrerebbe apparentemente una vera stranezza in quanto gli stipendi dei pubblici ufficiali sono quasi sempre modestissimi e molto spesso insufficienti al vivere anche per una vita molto modesta. L’apparente paradosso viene in seguito spiegato con l’esistenza, oltre allo stipendio che paga lo Stato, di altre forme di pagamento di tipo straordinario che prendono vario nome: emolumenti, onoranze e sportule. Queste forme di pagamento non vengono più pagate dalla finanza pubblica ma dai privati, definiti da Chabod dei “diritti casuali” che riguardano tutte le attività dello Stato e vengono applicati per qualunque atto dell’autorità pubblica (in primo luogo nell’amministrazione della giustizia e nei stessi giudici). Quindi la “busta paga” degli ufficiali è ben diversa dallo stipendio nominale. A fine Cinquecento , nella pratica la differenza tra queste due forme di pagamento è molto evidente e fortemente sbilanciata per il secondo tipo di retribuzione infatti: per gli alti gradi… le “honoranze” valgono più dello stipendio (es. il presidente del Magistrato Ordinario 2400 lire annue di stipendio e 4339 lire annue di honoranze) se poi si scende dai capi ai funzionari di secondo e terzo e infimo rango le proporzioni si rovesciano tutto a favore degli emolumenti e straordinari. Gli stipendi rimangono invariati dal Cinquecento fino alla fine del Seicento (tutta l’età del dominio spagnolo ) e quindi con il passar del tempo, confrontati con il potere d’acquisto, diventano via via più modesti. Nel Seicento il costo della vita triplica e a fronte di richieste di aumenti, il re Filippo III accresce le sportule che le parti devono pagare; poiché avendo raggiunto ormai l’Impero grandi dimensioni il bilancio dello Stato non può permettersi un accrescimento delle spese. Federico Chabod dona alle spettanze un profilo di lettura più moderno e le compara a quelle che in tempi più recenti sono le indennità di carovita. Inoltre, l’importanza di queste forme di pagamento degli impiegati pubblici, viene ulteriormente rafforzata dal fatto che spesso gli stipendi possono essere pagati in ritardo mentre i pagamenti straordinari, pagati dalle parti, vengono incassati immediatamente evitando così che un funzionari presti la sua opera senza ricevere remunerazioni. L’autore di sofferma in una parte del capitolo ad elencare accuratamente la ricompensa per ogni tipo di attività offerta dai pubblici poteri. Gli introiti della maggioranza dei funzionari diventano tali da consentire loro non solo di vivere ma anche di risparmiare, e di arricchirsi rapidamente evidentemente anche da proventi illeciti.
Quindi viene affrontato dallo storico il problema del "giusto stipendio". Chabod cita Molina che affronta il problema dello stipendio non giusto: quando l’autorità non provvede e il funzionario pensa che lo stipendio non sia giusto può provvedere ad accettare emolumenti, purchè non si passi il limite del giusto prezzo che deve essere valutato e poi deve essere osservato perché stabilito dalla legge. Qui secondo Chabod si resta nel generico e si fa riferimento quindi a concetti già dati per scontati, questi sono ritenuti dall’autore di un’astrattezza dottrinaria e di razionalismo della tradizione che risentono però evidentemente la conoscenza della realtà storica da parte di Molina. Su queste orme continua il giurista e professore Menochio, citato sempre nel lavoro di Chabod. Per Menochio il giusto stipendio è quello fissato "a lege, Principe, vel consuetudine" e se non è fissato è lasciato a "arbitrio Principis", basti tener d’occhio il costo della vita. Quindi la ricerca astratta del “giusto” di Molina viene sostituita dall’affermazione più concreta del Menochio ovvero è giusto quello stipendio che è sufficiente al vivere e ad un certo risparmio. Nella parte finale del capitolo lo storico precisa che c’è comunque da aggiungere ai pagamenti dei funzionari una serie di privilegi di cui godevano: ad es. sull’affitto delle case; esportazione del riso; esenzioni fiscali (quest’ultime soprattutto nel periodo di Carlo V). Infine vi sono una seri di doni in natura, ormai diventati consuetudine, (diversi da emolumenti e onoranze) generosamente elargiti ai funzionari. Quindi “l’ufficio” non è solo fonte di onori ma anche lucro per questo si spiega a Milano questa “corsa” a ricoprire mansioni pubbliche.
21 commenti:
Come stipulato a lezione io sono indirizzato per l'amministrazione francese, in particolar modo del libro che ho già recuperato presso la facoltà di lettere a roma tre, intitolato intendenti e prefetti: L'intendente provinciale nella francia di antico regime 1551-1648, di Adriana Petracchi.Vi riporto l'argomento su cui sarei intenzionato a fare la relazione così evitiamo di sovrapporci all'esposizione di mercoledì. L'argomento è il seguente: Intendenti d'armata e di provincia nella seconda metà del secolo XVI.(capitolo terzo)
Dal 500 (fine dell’Evo medio e inizio Evo moderno) gli ordinamenti territoriali estendono i loro scopi dall’ambito della pura “giustizia” a quello dell’ “amministrazione. Il potere supremo cessa di svolgere solo il ruolo di giudice/giustiziere per assegnarsi una quantità di compiti precedentemente espletati solo in via occasionale. Gli enti politici non si limitano a raccogliere grandi eserciti e risorse correlative, ma iniziano a farsi carico dell’organizzazione della società a cui sono preposti in vari modi: sviluppando una politica economica, garantendo livelli minimali di sicurezza per le persone e le cose, avocando istituzioni religiose e culturali, prevenendo rischi sociali come carestie, epidemie, vagabondaggio ecc..
Differenza fondamentale con il modo di amministrare contemporaneo è che tale funzione non viene espletata da uno Stato unitario, ma da un conglomerato di altri soggetti uniti tra loro e al principe sovrano da una fitta rete di vincoli para-contrattuali. Lo Stato di allora si presenta come una aggregazione federativa, un contenitore di una pluralità di organismi diversi, ciascuno portatore di un interesse collettivo rilevante, che non derivano la loro identità istituzionale da un atto creativo del sovrano, bensì da una propria autorganizzazione, per lo più risalente al medio evo.
Questa Società Corporativa cresce e si sviluppa con l’Autorità statale, avvinta in un abbraccio strettissimo che si scioglierà solo con la Rivoluzione e l’avvento dello Stato liberale.
Riassumendo: il primo carattere dell’amministrazione nella fase della sua preistoria è di non essere una , ma tante quanti sono i centri di imputazione degli interessi collettivi in gioco. Centri che a loro volta non esistono per una volontà del potere centrale, ma in virtù di un loro diritto originario.
Il primo dato che colpisce, pertanto, l’osservatore di questo scenario è l’esistenza di una marcata dicotomia tra due livelli di amministrazione ben distinti, con due statuti giuridici diversi, anche se destinati ad integrarsi reciprocamente.
1. Auto-amministrazione o amministrazione dei governati, caratterizzata dalla società corporata. Lo statuto che disciplina questo tipo di amministrazione è tendenzialmente consensualistico, si fonda sull’auto –amministrazione affidata ai membri dei corpi ed è fondata su una reciproca e formale equiparazione. L’amministrazione corporativa è affine all’amministrazione della “casa domestica” affidata al paterfamilias ( le comunità non erano altro che aggregati permanenti di più famiglie in vista del soddisfacimento di bisogni non quotidiani).
Caratteristica saliente delle organizzazioni dei governati è quella di non essere titolari di alcun diritto potestativo. Tale consapevolezza è già espressa dai giuristi del 300. Bartolo da Sassoferrato: il popolo (ordinamento territoriale) sia esso città villaggio rurale, corporazione professionale o altro per il solo fatto di soggiacere ad un altro soggetto istituzionale lo spoglia di ogni potestà imperativa. La sola capacità che gli è riconosciuta è puramente “privatistica” di gestire i suoi interessi patrimoniali. Ogni corpo o comunità è considerato alla stregua di una persona giuridica (universitas) legittimata a compiere atti accessibili ad ogni individuo: acquistare o alienare proprietà, agire o essere convenuto in giudizio, contrarre obbligazioni ecc..
Gli Statuti operativi della società corporata tra il 500 e il 600 acquisiscono una sorta di autonomia disciplinare nota come “ius universitatum” ad opera di della dottrina ( trattato del 1601 di Nicolò Loseo, magistrato savoiardo ) e delle giurisprudenza. Le regole inerenti la formazione della volontà si ispirano al principio consensualistico: ogni componente è chiamato ad esprimere il suo giudizio in merito all’oggetto d’interesse collettivo ed è richiesta l’unanimità per le decisioni di maggiore spessore. Ma, attenzione, la logica di tale tipo di amministrazione non è di tipo “democratico” perché la natura privatistica di questi organismi ne fa degli spazi ferocemente chiusi ai quali si accede solo con l’accettazione di coloro che già ne fanno parte.Si tratta certo di statuti ricchi di “norme speciali” rispetto a quelle disciplinanti la vita delle persine fisiche, non solo perché la formazione della volontà ed il regime della responsabilità richiedevano una regolamentazione specifica, ma anche al fine di attribuire a corpi e comunità tutta una serie di privilegi nei rapporti con i terzi per proteggerli dalla eventuale malafede degli amministratori e salvaguardare al meglio gli interessi di cui erano portatori . Benché privilegiati essi però erano sprovvisti di potestà imperativa e se qualcuno non riconosceva spontaneamente determinati diritti, essi potevano solo agire in giudizio per avere soddisfazione.
Riassumendo il mio discorso che mercoledì mi porterà a parlare dell'amministrazione in Francia, nello stato premoderno:
-Una parte notevole della gestione degli interessi collettivi era disciplinato da uno statuto legale non distinto da quello che regolava le relazioni tra privati.
-Tanto le amministrazioni corporative quanto quella fiscale erano caratterizzate da forti specialità che squilibravano il rapporto a favore della parte pubblica.
-Le prerogative del fisco, tuttavia non potevano comprimere totalmente e unilateralmente i diritti dei terzi., idem per i corpi organizzati.
-separare l’amministrazione autoritativa dell’antico regime da quella contemporanea è che la prima non è scorporabile dalla giustizia, essa è giustizia e per questo non può essere ancora oggi considerata come funzione autonoma.
FONTE: "STORIA DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO" Mannori-Sordi
Invito anche gli altri a lasciare una sintesi di quanto esporanno in aula questa settimana.
Brevi osservazioni utili per tutti:
Rielaborare sempre a parole vostre i concetti espressi nei testi che state consultando e citate l'autore di una certa tesi.
Quando poi riportate il pensiero di giuristi antichi senza averne letto le opere, ricordate sempre di premettere il nome dello studioso (ad es. Mannori) che ha interpretato la fonte in quel modo. Diversamente, potrebbe sembrare che avete letto direttamente la fonte originale.
Continuate a lasciare i vostri commenti.
prova
Per una condivisione delle temastiche che ersporro il prossimo giovedì a lezione,di seguito metto a disposizione un indice degli argomenti e un riassuntoche riguardano:
1. I meccanismi della fiscalità nel regno di Napoli
2. L’acquisto della percettoria di Terra di Bari.
Il testo preso in considerazione è “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo, di Giuseppe Patisso,
professore aggregato all’Università del Salento, Dipartimento di studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea.
Nel Regno di Napoli il prelievo tributario era articolato con un sistema fiscale misto di imposte dirette ed indirette.
Le imposte dirette si caratterizzanvano, a loro volta, in tributi avente carattere ordinario (funzione fiscale e adoha) e straordinario (donativi e valimenti).
Le imposte indirette erano costituite da dazi doganali, diritti di fondaco, gabelle, monopoli, diritti da uffici e sigilli.
La procedura con la quale si fissava un’imposta diretta si svolgeva in tre momenti distinti:
1) Rilevazione ed esami dei dati patrimoniali nell’ambito della rilevazione dei fuochi;
2) Quantificazione in once della capacità contributiva degli individui;
3) Tassazione.
Caratteristica della riscossione delle imposte era che queste venivano riscosse in metallo pregiato (argento), mentre le imposte erano generalmente fissate con importi espressi in moneta di bassa lega, grana o cavalli. Ne conseguiva, pertanto, che sulle università gravava l’onere, oltre che della riscossione, del cambio in argento del denaro versato dai contribuenti in moneta debole, fatto che produceva una ulteriore sopratassa data dallo scarto esistente tra il valore intrinseco dell’argento e quello delle monete in rame.
Il rilevamento catastale era il sistema di riscossione più diffuso nel Napoletano. L’unità di tassazione era costituita dal fuoco, che rappresentava l’unità familiare. Attraverso una rivela ogni capofamiglia doveva dichiarare la composizione del nucleo familiare indicando l’età il sesso e l’attività lavorativa. La veridicità della rivela veniva accertata dagli apprezzatori comunali che redigevano un libro catastale fissando la base imponibile di ciascuna unità focolare, sulla quale veniva applicata l’aliquota d’imposta (variabile di anno in anno a seconda delle necessità).
In caso di dubbi sui dati patrimoniali dichiarati nella rivela, il capitano (rappresentante in loco del potere centrale), assieme agli apprezzatori delle universitates, procedeva alla valutazione dei singoli casi.
Anche a quel tempo esisteva una esenzione fiscale totale che riguardava:
- Ecclesiastici di ogni grado;
- Nullatenenti disoccupati;
- Capifamiglia con almeno 12 figli a carico;
e parziale:
- Sessagenari;
- Nobili o chi viveva more nobilium;
- Apprendisti.
In questo contesto, il ruolo finanziario svolto dalle universitates risultava di fondamentale importanza, svolgendo un’azione di intermediazione tra le strutture centrali (ministeri finanziari) e quelle periferiche (percettori).
2. L’acquisto della percettoria di Terra di Bari
Con l’analisi delle vicende e delle attività dei personaggi legati alla percettoria di Terra di Bari nei primi anni del XVI secolo, si possono riscontrare le caratteristiche e rilevare le criticità che riguardavano un po’ tutte le percettorie diffuse sul territorio nell’epoca.
I documenti ritrovati, a seguito della visita effettuata da Juan Beltràn de Guevara, illustrano i modi di esazione, l’organizzazione della percettoria, il comportamento del precettore e dei suoi collaboratori e la rete di amicizie e parentele che si articolavano intorno alla percettoria.
Tramite questo ufficio veniva svolta la funzione di osservatore economico, in quanto poteva effettuare un completo controllo sulle entrate annue, assicurando, in questo modo, anche ai piccoli risparmiatori la possibilità di un buon investimento.
Durante l’interrogatorio effettuato dai commissari del visitatore emerse che Muzio de Angelis pretendesse dalle università denaro in prestito senza mai più restituirlo. Le stesse università dovevano pagare ai commissari la somma di 16 carlini al giorno (denaro diviso tra il percettore e i commissari) al posto dei 3 carlini previsti dalla norma in vigore.
Estorsioni e soprusi erano serbati anche ai privati, ai quali venivano sequestrati beni con la possibilità di riscattarli dietro pagamento. Nulla impediva ai commissari di turno di ripetere il sequestro per qualsiasi motivo.
1. Conclusioni
L’analisi della struttura e dei meccanismi della fiscalità nel Regno di Napoli mostra una diffusa complessità e ramificazione dettata da quella che è ormai divenuta la necessità di finanziare le sempre maggiori esigenze della Corona. Queste esigenze si scontravano con le difficoltà della minuziosa raccolta, dovute dalle condizioni, dalla molteplicità di culture e dalle distanze che coesistevano nel mondo dell’epoca. La soluzione adottata, se dal punto puramente teorico sembrerebbe la più dettagliata possibile e la sola capace di raggiungere ogni singolo punto del regno, dal punto di vista pratico lasciava il passo a una gestione di tipo privato, libera di agire e senza adeguati meccanismi di controllo.
Questa gestione di tipo privato era a discapito di quella raccolta dei tributi la cui entità si vedeva ridotta di passaggio in passaggio prima dell’arrivo alle casse della Corte che, di conseguenza, potevano raccogliere solo le cosiddette “briciole”.
Fonti:
- Giuseppe Patisso, “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo”, Besa editrice 2002; che ha citato:
- A. Bulgarelli Lukacs, “L’Imposta diretta nel Regno di Napoli in età moderna”, 1993;
- G. Coniglio, “Il Viceregno di Napoli nel sec. XVII”;
- R. Mantelli, “Burocrazia e finanze pubbliche nel Regno di Napoli”;
- G. Muto, “Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli stati italiani della prima età moderna”, in Origini dello stato;
Indice degli argomenti:
Meccanismo della fiscalità nel Regno di Napoli
- Tipo e definizione delle imposte dirette:
Ordinarie
Funzioni fiscali
Adoha
Straordinarie
Donativi
Valimenti
- Tipo e definizione delle imposte indirette:
Dazi doganali
Diritti di fondaco
Gabelle
Privative
- Rilevamento della base imponibile
I fuochi
La rivela
Le esenzioni
L’acquisto della percettoria di Terra di Bari
Modalità di acquisto
Funzioni svolte
La sostituzione
Denunce delle università e dei privati
Conclusioni
Il testo di cui mi sono occupato è contenuto nel libro di Adriana Petracchi " Intendenti e prefetti: l'Intendente provinciale nella Francia d'antico regime ( 1551-1648). Il libro risali al 1971. Nello specifico mi sono occupato del capitolo intitolato " I nemici degli Intendenti" ( settimo capitolo).
A lezione descriverò inizialmente come il sentimento del popolo verso l'Intendente fosse ambivalente: da un lato c'era il risentimento verso che veniva a imporre nuovi tributi, mentre dall'altro era visto con rispetto e ammirazione in quanto con il suo intervento poteva dirimere il disbrigo delle pratiche giacenti.
Mi occuperò poi degli scontri che si verificarono tra gli Intendenti e i Governatori e descriverò il primo caso di cui si ebbe notizia: lo scontro tra il mareciallo d'Ornano, Governatore del Delfinato e di Lione, e Pomponne de Bellievre, Intendente di giustizia. Per risolvere la questione intervenne direttamente il re Enrico IV che con una lettera chiarì le reciproche competenze.
Per la Petracchi con ogni probabilità al suo comparire sulla scena politico-istituzionasle francese l'Intendente cercò di sovente l'appoggio del Governatore, che era stabilmente affermato e accettato nella regione; mentre in seguito agli estesi poteri di cui l'Intendente potè disporre, tale appoggio gli sembrò superfluo e inoltre dovette tener conto del disegno del governo che mirava a ridurre , tramite la sua figura, i poteri del Governatore.
Passerò poi a esaminare l'ostilità che ci fu tra gli Intendenti e gli Officiali del re. Tali scontri avvennero essenzialmente per due motivi: per motivi di prestigio, poichè gli intendenti godevano di un rango maggiore fino a che durava il loro incarico, e per ragioni economiche, date dalle diminuite retribuzioni per gli Officiali causate dai meno numerosi atti d'amministrazione dei quali si occupavano.
I nemici più acerrimi degli Intendenti, tuttavia, si dimostrarono essere i togati giureconsulti della Corte del Parlamento di Parigi. Questi erano probabilmente i più duramente colpiti dalla creazione dell'Intendente che minacciava le loro funzioni. Molto presto fecero notare al re il proprio dissenso per l'istituzione di questo nuovo tipo di magistrato inviando numerose lettere di protesta in cui si invitava il sovrano ad abolire la figura dell'Intendente.
A tali proteste seguirono varie agitazioni che culmirarono nella rivolta della Fronda del 1648. Tuttavia la rivolta ebbe un successo solo parziale e momentaneo non riuscendo nell'intento di eliminare dalla scena la figura dell'Intendente causa il parere opposto del sovrano.
Per la Petracchi tuttavia dopo la rivolta della Fronda la figura dell'Intendente cambiò l'essenza: non più agente straordinario del sovrano, ma strumentio di una razionale e moderna amministrazione accentrata.
Molto bene, la vostra esposizione sta migliorando, ne sono contenta.
Soltanto per ricordare l'ordine dei vostri interventi:
Mercoledì 18:
Fabrizio, Lorenzo, Marzia e Sonia
Giovedì 19:
Alberto, Laura, Luisa, Walter
Ecco il mio commento al capitolo III del Terzo Libro della République di Jean Bodin - “Dei Magistrati”
In questo capitolo l’obiettivo dell’autore è quello di far piena luce sul potere di tutti i magistrati in ogni sorta di stato.
Tuttavia, se prima non andiamo ad analizzare in termini generali l’opera di Bodin “La République”, rimane difficile capire la motivazione della definizione storico-analitica che egli apporta.
Bodin nella sua opera ci fa sapere che nessuno prima di lui, ha saputo cogliere rigorosamente le vere caratteristiche della sovranità; così nel suo elaborato questa diventa argomento cardine attraverso il quale spiega cosa è la res pubblica, perché supportare la forma di governo monarchica, e i vari organi che la compongono, quindi i magistrati.
da Commento all’opera di Bodin, Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico […] “non potrebbe sovranità di un funzionario o di un corpo legislativo eletto per un periodo determinato, non si tratterebbe che di magistrati”. E Bodin rimprovera severamente a molti autori di aver confuso magistrati e sovrano.
Nell’esposizione andrò quindi a parlare più nel dettaglio di questa impressionante opera, definita da molti un testamento enciclopedico, per agganciarmi poi attraverso la spiegazione di sovranità alla definizione che Bodin offre circa i magistrati. Ci saranno a questo punto riferimenti etimologici del termine, con una breve ripresa della figura nella storia romana.
La mia relazione verte su due capitoli del libro di ADRIANA PETRACCHI, intitolato INTENDENTI E PREFETTI: L’INTENDENTE PROVINCIALE NELLA FRANCIA DI ANTICO REGIME.
I due capitoli che esporrò a lezione riguardano gli intendenti d’armata e di provincia dalla seconda metà del XVI secolo all’inizio del XVII. Il seguente saggio è ambientato in Francia. Durante questo periodo si sono successi diversi troni, ENRICO II 1547-1559, FRANCESCO II 1559-1560, CARLO IX 1560-1574, ENRICO III 1574-1589, ENRICO IV 1589-1610.
Prima della nascita di questa nuova figura,ovvero Dell’intendente, l’amministrazione contava oltre al consiglio del re, agli ufficiali giudiziari e di finanza una pluralità di commissari che espletavano funzioni e poteri di diversa natura,soprattutto di controllo verso soggetti a cui era affidato il compito di esercitare funzioni pubbliche delegate dal monarca. Con l’espandersi dei poteri e delle funzioni il re necessitava sempre più di commissari fino a che nel 1555 si ebbe la prima lettera di commissione conferita da ENRICO II a Panisse in Corsica la quale delegava a costui la figura dell’Intendente di giustizia. Figura che constava di una pluralità di funzioni quali ispettive, consultive, sanzionatorie esercitate nell’intera amministrazione di giustizia, e godeva anche di autonomia e indipendenza nei confronti dei giudici di ufficiali di finanza e del consiglio del re. Inoltre il re dava ampia fiducia e discrezionalità all’Intendente tant’è che obbligava tutti i suoi sudditi,tutti i suoi ufficiali giudiziari e finanziari ad ascoltare L’intendente e conformarsi ai suoi ordini. Le funzioni dell’Intendente così come la durata del suo incarico erano stabilite nella lettera di commissione, le prime figure di Intendente espletavano funzioni giuridiche e finanziarie a seconda che erano Intendenti di giustizia o di finanza soltanto dopo pochi decenni iniziarono ad espletare funzioni anche di altra natura. L’intendente di provincia, sia di giustizia sia di finanza o di qualunque altro genere espletava le sue funzioni circoscritte alla provincia riportata nella lettera di commissione.
Nel 1586 Enrico III con una lettera a maitre louis revol in Provenza da vita all’Intendente di armata che si differenzia dall’Intendente di provincia sopra descritto non per le funzioni che rimangono le stesse ma per la territorialità. L’intendente di armata esercitava i suoi poteri non nel territorio dove è chiamato ad espletare le predette funzioni ma bensì in una o più province ovunque si trovasse l’armata. Queste figure sia Intendente di provincia che di armata iniziano a diffondersi rapidamente, abbracciando anche diversi ambiti di funzione come l’intendente di marina l’intendente dell’esercito e molti altri. La figura dell’intendente non è ben visto dagli ufficiali giudiziarie e di finanza perché nell’esercizio dei suoi poteri spesso scavalcava, intralciava le funzioni delle autorità giudiziarie e della finanza così da creare tensioni e sgomenti nei confronti del re.
Il testo di cui mi sono occupata è contenuto nel testo: I sei libri dello stato (J.Bodin)soffermandomi con maggiore attenzione sul cap2,libro terzo.
Già dalle prime pagine del capitolo l’autore ci presenta queste nuove figure distinguendole in questo modo, l’ufficiale è la persona pubblica che ha una carica ordinaria definita con un editto mentre il commissario è la persona pubblica che ha una carica straordinaria definita con una semplice commissione.
Ci sono due tipi di commissari e di ufficiali quelli che hanno potere di comandare, chiamati magistrati, e quelli che fanno giustizia e eseguono gli ordini, entrambi sono persone pubbliche.
L’autore ci fa una precisazione, ovvero, questo non vuol dire che tutte le persone pubbliche sono di necessità ufficiali o commissari, pontefici, vescovi, sono persone pubbliche ma non ufficiali in quanto sono state istituite in vista di cose divine o umane.
L’ufficiale è una delle parti fondamentali dello stato e non è possibile immaginare uno stato senza ufficiali o commissari. Gli stati si sono serviti prima di commissari che di ufficiali, è magistrato chi ha potere di dare comandi e di fare giustizia. L’ufficiale è una persona pubblica e la parola “ordinaria”lo differenzia dal commissario che ha una carica pubblica “straordinaria” dovuta a circostanze temporanee.
capitolo intitolato: DEGLI UFFICIALI E DEI COMMISSARI.
La mia discussione verterà invece sull’istituto della visita, sul suo utilizzo e funzionamento nell’amministrazione dell’Italia spagnola del 500’. Spunti interessanti a riguardo li ho trovati in “Dinamiche istituzionali, risorse di governo ed equilibri di potere nelle "visitas generales" lombarde (1580-1620)” di Mario Rizzo che ho avuto modo di leggere nella raccolta curata da Cecilia Nubola e Angelo Turchini “Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d'Europa: XV-XVIII secolo”. Il Rizzo ci dice infatti che la visita presenta forti similitudini con due istituti giuridici di natura ispettiva che nacquero e si perfezionarono in Spagna a partire dal XIII secolo: la pesquisa e la residencia castigliana o purga de taula aragonese (analizzati da Geltrude Macrì in “Visitas generales e sistemi di controllo regio nel sistema imperiale spagnolo: un bilancio storiografico” e su cui mi soffermerò meglio a lezione) . Nell’Età moderna entrambi questi procedimenti di controllo si andarano progressivamente affievolendo per lasciare spazio alle visitas che, a seconda dell’ampiezza del mandato dei visitatori, potevano essere generales (destinate per lo più all’Italia e alle Indie e aventi ad oggetto la totalità dell’organizzazione amministrativa di un Regno) ed especiales (utilizzate nei territori della penisola iberica nei confronti di istituzioni o funzionari sospettati di aver operato in modo scorretto nell’esercizio delle proprie funzioni). Nella prima metà del 500’, grazie all’intervento di Carlo V, il Regno di Napoli fu la prima provincia italiana a sperimentare quest’inedito istituto che aveva un suo corrispettivo solo nella tradizione ecclesiastica per mezzo delle visite pastorali. Infatti Giuseppe Coniglio in “Visitatori del Viceregno di Napoli” scrive che proprio Carlo V per porre rimedio al cattivo funzionamento degli uffici del Viceregno di Napoli ordinò a dei visitatori generali(magistrati straordinari aventi qualità tecnico-professionali, umane, morali e sociali) di recarsi nelle città, raccogliere le denunce contro quanti erano accusati di essersi resi colpevoli di abusi, ruberie, appropriazioni indebite e meno frequentemente di lesioni personali, violenze, e talvolta di delitti. La visita, più nello specifico, agiva come un tribunale inquisitoriale avente regole codificate da una prassi giuridica antica. Infatti sotto il profilo funzionale e organizzativo sembra esistere una stretta analogia tra visita e Inquisizione, analogia che è stata notata da Giuseppe Patisso in “Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo” e ben avvertita nell’Italia spagnola del 500’ dove si considerava la visita generale una formula surrettizia per instaurare nel Regno di Napoli prima e nel Regno delle Due Sicilie e Ducato di Milano poi, un’Inquisizione “che porta la veste criminale al modo dell’Inquisitore di Spagna”. Ancora più pregnante appare poi un’analogia di fondo, individuata sempre da Mario Rizzo e concernente la natura composita che caratterizza tanto le visitas generales quanto le visite pastorali. Come per le visite generali, anche l’attuazione delle visite pastorali, che per citare Cecilia Nubola permettevano di “conoscere per governare”, era influenzata da una pluralità di fattori, quali le istruzioni del vescovo, la personalità e le competenze dei visitatori, le caratteristiche specifiche del territorio visitato, il tempo a disposizione, l’insorgere di problematiche locali.
Di seguito un accenno sull'argomento che esporrò domani a lezione:
Fonte: Testo "Visite generali e fiscalità periferica nel Mezzogiorno spagnolo", di Giuseppe Patisso,professore aggregato di storia moderna presso la facoltà di Storia e Filosofia dell'Università del Salento.
Il Tema che ho scelto di trattare riguarda l'istituto dei poercettori provinciali nel Regno di Napoli, esaminando le origini della figura del percettore, i suoi aspetti giuridici, la struttra delgi uffici in cui essi operavano e gli interventi legislativi riguardanti le percettorie.
La presenza dei precettori può essere attestata dai documenti dell’archivio di Stato di Napoli a proposito della Calabria Citra risalenti agli anni ‘40 del Quattrocento: essi, con il passaggio tra dominio aragonese e con lo spagnolo, riuscirono a introdursi all’interno dell’incerto sistema di dominio spagnolo nel mezzogiorno durante i primi 30 anni del 1500.
Tuttavia, questo istituto si sviluppò sul vecchio tronco della figura del camerario dell’epoca normanna e sulla successiva ristrutturazione aragonese per fornire una base giuridico-amministrativa all’esigenza di convogliare nelle casse dello Stato i tributi delle università, del ceto feudale e di altre categorie sociali, anche se non tutte le esazioni passavano per le mani dei percettori.
Essi riuscirono a consolidare la loro presenza all’interno di una gestione del potere che presentava un incerto confine tra corretto esercizio del servizio pubblico e interesse privato della gestione: non vi era, riguardo ai percettori, una legislazione precisa che ne definisse con, né vi era una razionale sistema di controlli sul loro operato, almeno fino ai primi anni ’30 del 1500. In una simile situazione di mancanza delle verifiche da parte degli organi di controllo amministrativa centrale sulle istituzioni periferiche e la acquisita autonomia dei percettori, questi ultimi non avevano alcun interesse a vedere formalizzato il loro ruolo attraverso una rigida normativa.
Tuttavia è con il viceré don Pedro de Toledo iniziò una svolta della politica imperiale nel Mezzogiorno spagnolo: la politica del vicerè si rivolse verso due direzioni: il controllo delle istituzioni del regno e la centralizzazione delle funzioni pubbliche e la questione dei percettori provinciali non risultava essere di secondaria importanza, in quanto titolari dell’azione fiscale periferica e si trasformò, anzi, in un motivo di scontro all’interno dell’amministrazione finanziaria. Il principale problema consisteva nell’assegnare ad una istituzione centrale il controllo diretto dei percettori.
Tuttavia, nel 1536 si sperimentò il nuovo sistema di vigilanza articolato in due direzioni:
1) Con l’elezione di Bartolomeo Camerario a conservatore generale del re al patrimonio all’interno della Sommaria;
2) Con l’istituzione della visita generale.
Lo stesso anno la Sommaria inviò nuove disposizioni atte a disciplinare l’attività dei percettori: principale obiettivo della Regia Camera era di impedire che il pubblico denaro non fosse utilizzato per speculazioni, prestiti o altre forme di investimento prima di essere versato nelle casse vicereali. Abitudine consolidata dai percettori, infatti, era quella di ritardare i versamenti delle somme raccolte per utilizzarle in investimenti remunerativi, giustificandosi di fronte alla Sommaria affermando che la colpa del mancato versamento fosse dovuto a ritardi da parte dei contribuenti.
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Per quanto riguarda gli aspetti giuridici, la carica del percettore provinciale, durante l’età moderna, non presentava una struttura giuridica ben definita. E la stessa definizione dello status dei percettori sembra non fosse un problema avvertito dalla coscienza dei governanti i quali non vollero o non seppero dare una definizione puntuale della natura e delle attribuzioni di questi uffici.
La gestione delle percettori è provinciali era di tipo imprenditoriale, nel senso che lo Stato non essendosi curato di creare una struttura per il prelievo delle imposte dirette, aveva affidato questo compito l’organizzazione privata del percettori.
Per quanto riguarda gli uffici percettori, l’organico della percettoria costituisce solo il vertice di un organismo caratterizzato da una molteplicità di figure a cui è affidata la gestione della vita economica delle province del Mezzogiorno. Queste figure sono rappresentate dal titolare dell’ufficio e dal luogotenente; un cassiere; uno o più scrivani, che tenevano i libri contabili e qualche scrivano e un computante che risiedeva a Napoli per seguire vari problemi dell’ufficio.
Circa gloi interventi legislativi sulle percettorie, tra il 1559 e il 1564, a seguito della visita effettuata dal cardinale Quiroga, furono emanate 13 disposizioni che
contemplavano le regole di gestione della contabilità delle percettorie, le pene cui si incorreva per appropriazione o uso indebito del denaro percepito e i modi con cui effettuare il versamento alla cassa della tesoreria generale.
Successivamente, tra il 1581 e 1584, un altro visitatore, Lope de Guzman, riuscì a individuare alcuni importanti meccanismi che avrebbero potuto consentire una riforma della figura del percettore: la visita risultò assai severa per molti percettori provinciali e servì al visitatore per formulare alcune considerazioni sulle cause delle malversazioni, soprattutto in occasione dell’acquisto dell’ufficio percettorile, dove, secondo Guzman, tale pratica favoriva gli speculatori a danno degli investitori onesti, tanto che per i profittatori l’acquisto dell’ufficio rappresenta una grossa occasione di guadagno consentiva loro di saldare il debito contratto per l’acquisto di quest’ultimo di utilizzare la carica per appropriarsi di illeciti emolumenti.
Poco tempo dopo la visita dello stesso Guzman, Madrid formalizzò i propri rilievi che furono prodotti dalla Sommaria in Istruzioni inviate ai percettori, ai tesorieri e commissari delle province del Regno di Napoli e, nel 1584 la Sommaria formulò delle istruzioni rivolte specificatamente percettori provinciali che si articolavano in 44 capi e che disciplinavano fondamentali questioni tendenti a regolamentare l’ufficio e la figura del percettore stesso
II. Stipendi ed emolumenti degli “officiali”.
Lo storico Chabod, in questo capitolo del libro” Carlo V e il suo impero” analizza le retribuzioni e le condizioni di vita degli officiali a Milano nel Cinquecento. L’autore afferma che, in questo periodo, vi è una tendenza molto forte a preferire il lavoro nei pubblici uffici, ciò sembrerebbe apparentemente una vera stranezza in quanto gli stipendi dei pubblici ufficiali sono quasi sempre modestissimi e molto spesso insufficienti al vivere anche per una vita molto modesta. L’apparente paradosso viene in seguito spiegato con l’esistenza, oltre allo stipendio che paga lo Stato, di altre forme di pagamento di tipo straordinario che prendono vario nome: emolumenti, onoranze e sportule. Queste forme di pagamento non vengono più pagate dalla finanza pubblica ma dai privati, definiti da Chabod dei “diritti casuali” che riguardano tutte le attività dello Stato e vengono applicati per qualunque atto dell’autorità pubblica (in primo luogo nell’amministrazione della giustizia e nei stessi giudici).
Quindi la “busta paga” degli ufficiali è ben diversa dallo stipendio nominale.
A fine Cinquecento , nella pratica la differenza tra queste due forme di pagamento è molto evidente e fortemente sbilanciata per il secondo tipo di retribuzione infatti:
per gli alti gradi… le “honoranze” valgono più dello stipendio (es. il presidente del Magistrato Ordinario 2400 lire annue di stipendio e 4339 lire annue di honoranze) se poi si scende dai capi ai funzionari di secondo e terzo e infimo rango le proporzioni si rovesciano tutto a favore degli emolumenti e straordinari.
Gli stipendi rimangono invariati dal Cinquecento fino alla fine del Seicento (tutta l’età del dominio spagnolo ) e quindi con il passar del tempo, confrontati con il potere d’acquisto, diventano via via più modesti. Nel Seicento il costo della vita triplica e a fronte di richieste di aumenti, il re Filippo III accresce le sportule che le parti devono pagare; poiché avendo raggiunto ormai l’Impero grandi dimensioni il bilancio dello Stato non può permettersi un accrescimento delle spese. Federico Chabod dona alle spettanze un profilo di lettura più moderno e le compara a quelle che in tempi più recenti sono le indennità di carovita.
Inoltre, l’importanza di queste forme di pagamento degli impiegati pubblici, viene ulteriormente rafforzata dal fatto che spesso gli stipendi possono essere pagati in ritardo mentre i pagamenti straordinari, pagati dalle parti, vengono incassati immediatamente evitando così che un funzionari presti la sua opera senza ricevere remunerazioni. L’autore di sofferma in una parte del capitolo ad elencare accuratamente la ricompensa per ogni tipo di attività offerta dai pubblici poteri. Gli introiti della maggioranza dei funzionari diventano tali da consentire loro non solo di vivere ma anche di risparmiare, e di arricchirsi rapidamente evidentemente anche da proventi illeciti.
Quindi viene affrontato dallo storico il problema del "giusto stipendio".
Chabod cita Molina che affronta il problema dello stipendio non giusto: quando l’autorità non provvede e il funzionario pensa che lo stipendio non sia giusto può provvedere ad accettare emolumenti, purchè non si passi il limite del giusto prezzo che deve essere valutato e poi deve essere osservato perché stabilito dalla legge. Qui secondo Chabod si resta nel generico e si fa riferimento quindi a concetti già dati per scontati, questi sono ritenuti dall’autore di un’astrattezza dottrinaria e di razionalismo della tradizione che risentono però evidentemente la conoscenza della realtà storica da parte di Molina. Su queste orme continua il giurista e professore Menochio, citato sempre nel lavoro di Chabod. Per Menochio il giusto stipendio è quello fissato "a lege, Principe, vel consuetudine" e se non è fissato è lasciato a "arbitrio Principis", basti tener d’occhio il costo della vita. Quindi la ricerca astratta del “giusto” di Molina viene sostituita dall’affermazione più concreta del Menochio ovvero è giusto quello stipendio che è sufficiente al vivere e ad un certo risparmio.
Nella parte finale del capitolo lo storico precisa che c’è comunque da aggiungere ai pagamenti dei funzionari una serie di privilegi di cui godevano: ad es. sull’affitto delle case; esportazione del riso; esenzioni fiscali (quest’ultime soprattutto nel periodo di Carlo V). Infine vi sono una seri di doni in natura, ormai diventati consuetudine, (diversi da emolumenti e onoranze) generosamente elargiti ai funzionari. Quindi “l’ufficio” non è solo fonte di onori ma anche lucro per questo si spiega a Milano questa “corsa” a ricoprire mansioni pubbliche.
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