giovedì 3 novembre 2016

Lezione del 2 novembre 2016 - CON VIDEO

Harold Berman, nel suo libro “Law and revolution”, descrivendo i punti di contatto e di divergenza tra diritto occidentale e quello socialista, aveva individuato la “rivoluzione papale” del XI secolo come prima grande frattura che ha portato ad una trasformazione del pensiero giuridico europeo i cui caratteri fondamentali sono, ancora oggi, alla base del modello del diritto in Occidente.
In effetti, l’indebolirsi del potere imperiale ed il frazionamento delle giurisdizioni che avevano caratterizzato, con la loro conseguente anarchia, i secoli precedenti all’anno mille, portarono, all’inizio del nuovo millennio, ad una reazione da parte di alcune componenti della Chiesa, che voleva recuperare i beni e le prerogative ecclesiastiche caduti sotto il controllo di poteri laici ormai solo teoricamente dipendenti dall’Impero.
Questa reazione si concretizzò in uno sforzo di concentrazione del potere nella sede pontificia che condusse, oltre ogni previsione dei papi che la misero in atto, all’introduzione di una serie di elementi rimasti alla base dell’odierno diritto occidentale. Tale reazione fu graduale ma efficace.
Una premessa del mutamento fu la fondazione di istituti religiosi che si sottraevano a qualsiasi potere esterno e la nascita di un movimento di riforma organizzativa e strutturale degli enti ecclesiastici che prese il nome di movimento cluniacense, dal luogo del monastero che gli diede vita, Cluny. Venne rinnovata la regola monastica benedettina, riadattandola all’indipendenza degli enti ecclesiastici. L’esempio di indipendenza si propagò, poi, alle autorità vescovili cittadine le quali cominciarono a denunciare la propria autonomia dal potere laico e ad introdurre tra le proprie prerogative una giurisdizione separata e concorrente rispetto a quella laica.
Il programma politico nato da Cluny divenne sempre più un programma politico papale che culminò nella grande riforma gregoriana, che prende il nome da papa Gregorio VII. Il fortunato tentativo di ampliamento e recupero dei poteri ecclesiastici rendeva necessaria, infatti, la statuizione di principi generali in base ai quali fosse possibile esercitare questi poteri. L’esito indotto da tali contingenze storiche fu la ricerca e la ripresa delle regole giuridiche romane, che rispecchiavano un’ottica assai diversa dalla prospettiva carismatica che aveva caratterizzato il “diritto” della Chiesa del primo millennio. L’introduzione del cambio della mentalità europea avvenne, allora, proprio grazie alla riforma gregoriana la quale, nel tentativo di controllo delle devianze del clero e con la ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, introdusse delle norme dalla struttura fortemente legalitaria determinando un ritorno al pensiero giuridico classico, che non era mai stato completamente dimenticato.
Molti studi storici hanno analizzato le caratteristiche della riforma. Per i nostri fini possiamo sottolinearne alcune:
1. La lotta alla simonia, cioè, l’utilizzazione profana e l’appropriazione da parte del clero delle res sacrae appartenenti all’ente ecclesiastico che in quanto tali erano extra commercium.
2. La lotta al matrimonio e al concubinato del clero e alla conseguente pratica di trasmissione dei beni ecclesiastici ai propri discendenti, con l’inevitabile dispersione del patrimonio della Chiesa.
A ben vedere, questi due primi punti della riforma, lungi dall’essere di carattere meramente moralistico, sono espressione di quella più ampia tendenza al recupero della distinzione tra pubblico e privato che era scomparsa a causa delle ricordate contingenze storiche. La preoccupazione principale sottesa a queste regole era quella di far sì che chi ricopriva una carica ecclesiastica amministrasse i beni di cui era “investito” non nel proprio interesse ma in quello della comunità.
3. Il rilancio del sistema giurisdizionale ecclesiastico come strumento di accentramento del potere in concorrenza quello laico e l’introduzione di principi giurisdizionali gerarchici. Il più importante tra questi riguarda la possibilità di appello al papa non più per meri vizi procedurali ma per ingiustizia della sentenza emanata dall’autorità vescovile. Si trattava di un principio nuovo, affermato dal Dictatus papae, una raccolta di proposizioni politiche che risale al 1075. Esso ribalta la dichiarazione delle Decretali pseudo isidoriane, che escludono l’appello contro la decisione del superiore, perché “la pecora non può accusare il suo pastore”. L’introduzione dell’appello contro la decisione del giudice naturale (di regola un vescovo) portò alla ricerca nel diritto romano classico di regole e principi dalla struttura non più semplicemente carismatica ma più strettamente legalitaria.
La tendenza alla separazione delle due giurisdizioni e la tensione tra i poteri laico ed ecclesiastico è alla base anche dei due successivi punti del manifesto della riforma, ossia:
4. La lotta per le investiture dei vescovi, che vide il papa opporsi alla nomina dei vescovi da parte dell’autorità laica.
5.  Recupero delle prebende, la cui titolarità doveva più apparire in capo alla persona fisica che le riceveva ma dell’ente che in quel momento operava mediante la persona fisica investita della funzione di riscossione. Anche questo fenomeno va incardinato in quella ricordata preoccupazione al recupero della classica distinzione pubblico-privato.
Tutto questo provocò, l’opposta reazione, da parte del potere laico centrale, al riaccentramento di tutte quelle caratteristiche della sovranità che si erano frammentate – recupero delle regalie-.
6. Controllo dei costumi del clero, mediante la cd. visita pastorale, una vera e propria procedura amministrativa di controllo ed ispezione della bona gestio dell’ente ecclesiastico, germe delle moderne regole di controllo amministrativo.
7. Controllo dei matrimoni dei laici nella prospettiva di disciplinare la società non più mediante le decisioni del caso concreto ma mediante l’apposizione di regole generali valide per tutti.
Quest’ottica è alla base dell’altra grande trasformazione dell’epoca, la quale ebbe un forte impatto sul funzionamento della società: il ripensamento della teologia e, in particolare, della ecclesiologia, quella branca della teologia che studia la struttura della comunità della Chiesa. Venne, infatti, rivisitato, in favore della figura del clero, il ruolo dello Spirito Santo. Da una visione in cui lo Spirito Santo era quella persona della trinità onnipresente nelle comunità cristiane, si passò ad una in cui l’intervento dello Spirito veniva evocato, attraverso i sacramenti, dall’ecclesiastico solo nel momento in cui si volevano produrre determinati effetti: il sacramento, dunque, prende a istituire la realtà ecclesiale, attingendo alla forza dello Spirito Santo per “porre in essere” gli status personali dei fedeli. La caratteristica di trasformazione della natura delle cose, elevandole ad istituzioni, la teoria del sacramento la condivide, a voler dire un azzardo, con la teoria del negozio. Non a caso, anche lo sviluppo di questa teoria portò alla reintroduzione di una forte giuridicità degli atti che caratterizzavano -e caratterizzano- la vita religiosa e alla ripresa di molti elementi giuridici classici.

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Era inevitabile che questo risveglio di una mentalità giuridica, fatta di atti che producono effetti previsti dalle norme a patto di osservare una disciplina prevista, inducesse a guardare al modello romano, e alle fonti giustinianee che lo avevano tramandato al Medioevo.
a cura di Chiara Casuccio

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Professore quando verranno pubblicati i risultati della terza domanda?

Anonimo ha detto...

Mi scusi Professore ma il Dictatus Papae sul libro e su fonti online è datato 1075, mentre a lezione (e sulla sintesi riportata sul blog) 1073. Quale è l'effettiva data?

Grazie

Emanuele Conte ha detto...

1075. Scusate noon ho controllato e ricordavo male