Harold Berman, nel suo libro “Law and revolution”, descrivendo i punti di
contatto e di divergenza tra diritto occidentale e quello socialista, aveva
individuato la “rivoluzione papale” del XI secolo come prima grande frattura
che ha portato ad una trasformazione del pensiero giuridico europeo i cui caratteri
fondamentali sono, ancora oggi, alla base del modello del diritto in Occidente.
In effetti, l’indebolirsi del potere imperiale ed il frazionamento delle
giurisdizioni che avevano caratterizzato, con la loro conseguente anarchia, i
secoli precedenti all’anno mille, portarono, all’inizio del nuovo millennio, ad
una reazione da parte di alcune componenti della Chiesa, che voleva recuperare
i beni e le prerogative ecclesiastiche caduti sotto il controllo di poteri
laici ormai solo teoricamente dipendenti dall’Impero.
Questa reazione si concretizzò in uno sforzo di concentrazione del potere
nella sede pontificia che condusse, oltre ogni previsione dei papi che la
misero in atto, all’introduzione di una serie di elementi rimasti alla base
dell’odierno diritto occidentale. Tale reazione fu graduale ma efficace.
Una premessa del mutamento fu la fondazione di istituti religiosi che si
sottraevano a qualsiasi potere esterno e la nascita di un movimento di riforma
organizzativa e strutturale degli enti ecclesiastici che prese il nome di movimento cluniacense, dal luogo del
monastero che gli diede vita, Cluny. Venne rinnovata la regola monastica
benedettina, riadattandola all’indipendenza degli enti ecclesiastici. L’esempio
di indipendenza si propagò, poi, alle autorità vescovili cittadine le quali
cominciarono a denunciare la propria autonomia dal potere laico e ad introdurre
tra le proprie prerogative una giurisdizione separata e concorrente rispetto a
quella laica.
Il programma politico nato da Cluny divenne sempre più un programma
politico papale che culminò nella grande riforma
gregoriana, che prende il nome da papa Gregorio VII. Il fortunato tentativo
di ampliamento e recupero dei poteri ecclesiastici rendeva necessaria, infatti,
la statuizione di principi generali in base ai quali fosse possibile esercitare
questi poteri. L’esito indotto da tali contingenze storiche fu la ricerca e la
ripresa delle regole giuridiche romane, che rispecchiavano un’ottica assai diversa
dalla prospettiva carismatica che aveva caratterizzato il “diritto” della
Chiesa del primo millennio. L’introduzione del cambio della mentalità europea
avvenne, allora, proprio grazie alla riforma gregoriana la quale, nel tentativo
di controllo delle devianze del clero e con la ristrutturazione delle gerarchie
ecclesiastiche, introdusse delle norme dalla struttura fortemente legalitaria
determinando un ritorno al pensiero giuridico classico, che non era mai stato
completamente dimenticato.
Molti studi storici hanno analizzato le caratteristiche della riforma. Per
i nostri fini possiamo sottolinearne alcune:
1. La lotta alla simonia, cioè, l’utilizzazione
profana e l’appropriazione da parte del clero delle res sacrae appartenenti
all’ente ecclesiastico che in quanto tali erano extra commercium.
2. La lotta al matrimonio e al
concubinato del clero e alla
conseguente pratica di trasmissione dei beni ecclesiastici ai propri
discendenti, con l’inevitabile dispersione del patrimonio della Chiesa.
A ben vedere, questi due primi punti della riforma, lungi dall’essere di
carattere meramente moralistico, sono espressione di quella più ampia tendenza
al recupero della distinzione tra pubblico e privato che era scomparsa a causa
delle ricordate contingenze storiche. La preoccupazione principale sottesa a
queste regole era quella di far sì che chi ricopriva una carica ecclesiastica
amministrasse i beni di cui era “investito” non nel proprio interesse ma in
quello della comunità.
3. Il rilancio del sistema
giurisdizionale ecclesiastico come strumento di accentramento del potere in
concorrenza quello laico e l’introduzione di principi giurisdizionali
gerarchici. Il più importante tra questi riguarda la possibilità di appello al papa non più per meri vizi
procedurali ma per ingiustizia della
sentenza emanata dall’autorità vescovile. Si trattava di un principio nuovo,
affermato dal Dictatus papae, una
raccolta di proposizioni politiche che risale al 1075. Esso ribalta la
dichiarazione delle Decretali pseudo isidoriane, che escludono l’appello contro
la decisione del superiore, perché “la pecora non può accusare il suo pastore”.
L’introduzione dell’appello contro la decisione del giudice naturale (di regola
un vescovo) portò alla ricerca nel diritto romano classico di regole e principi
dalla struttura non più semplicemente carismatica ma più strettamente
legalitaria.
La tendenza alla separazione delle due giurisdizioni e la tensione tra i
poteri laico ed ecclesiastico è alla base anche dei due successivi punti del
manifesto della riforma, ossia:
4. La lotta per le investiture dei
vescovi, che vide il papa opporsi alla nomina dei vescovi da parte dell’autorità
laica.
5. Recupero delle prebende, la cui titolarità doveva più apparire in capo alla persona
fisica che le riceveva ma dell’ente che in quel momento operava mediante la
persona fisica investita della funzione di riscossione. Anche questo fenomeno
va incardinato in quella ricordata preoccupazione al recupero della classica
distinzione pubblico-privato.
Tutto questo provocò, l’opposta reazione, da parte del potere laico
centrale, al riaccentramento di tutte quelle caratteristiche della sovranità
che si erano frammentate – recupero
delle regalie-.
6. Controllo dei costumi del clero, mediante la cd. visita pastorale, una vera e propria procedura amministrativa di
controllo ed ispezione della bona gestio
dell’ente ecclesiastico, germe delle moderne regole di controllo
amministrativo.
7. Controllo dei matrimoni dei laici nella prospettiva di disciplinare la
società non più mediante le decisioni del caso concreto ma mediante
l’apposizione di regole generali valide per tutti.
Quest’ottica è alla base dell’altra grande trasformazione dell’epoca, la
quale ebbe un forte impatto sul funzionamento della società: il ripensamento
della teologia e, in particolare, della ecclesiologia,
quella branca della teologia che studia la struttura della comunità della
Chiesa. Venne, infatti, rivisitato, in favore della figura del clero, il ruolo
dello Spirito Santo. Da una visione in cui lo Spirito Santo era quella persona
della trinità onnipresente nelle comunità cristiane, si passò ad una in cui l’intervento
dello Spirito veniva evocato, attraverso i sacramenti, dall’ecclesiastico solo nel momento in cui si volevano produrre
determinati effetti: il sacramento, dunque, prende a istituire la realtà
ecclesiale, attingendo alla forza dello Spirito Santo per “porre in essere” gli
status personali dei fedeli. La caratteristica di trasformazione della natura
delle cose, elevandole ad istituzioni, la teoria del sacramento la condivide, a
voler dire un azzardo, con la teoria del negozio. Non a caso, anche lo sviluppo
di questa teoria portò alla reintroduzione di una forte giuridicità degli atti
che caratterizzavano -e caratterizzano- la vita religiosa e alla ripresa di
molti elementi giuridici classici.
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Era inevitabile che questo risveglio di una mentalità giuridica, fatta di
atti che producono effetti previsti dalle norme a patto di osservare una
disciplina prevista, inducesse a guardare al modello romano, e alle fonti giustinianee
che lo avevano tramandato al Medioevo.
a cura di Chiara Casuccio
3 commenti:
Professore quando verranno pubblicati i risultati della terza domanda?
Mi scusi Professore ma il Dictatus Papae sul libro e su fonti online è datato 1075, mentre a lezione (e sulla sintesi riportata sul blog) 1073. Quale è l'effettiva data?
Grazie
1075. Scusate noon ho controllato e ricordavo male
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