Il diritto romano classico, da sempre
protagonista della cultura giuridica occidentale, la quale si è sempre posta
nei confronti di esso in rapporto di nostalgia e identificazione, subisce una
frattura o, per meglio dire, un’evoluzione progressiva che prende origine in
età dioclezianea e si svilupperà durante l’impero di Costantino
Con l’evoluzione del sistema
costituzionale romano improntato all’accentramento dei poteri, gli interventi
legislativi di Diocleziano e Costantino portarono, infatti, ad un allontanamento da alcuni principi della
Roma classica.
Il diritto dell’età imperiale è
caratterizzato, negli ultimi secoli, da una forte centralizzazione di poteri:
la molteplicità e il pluralismo di poteri e della loro allocazione che Roma aveva
da sempre conosciuto fin dai tempi della Repubblica subiscono una reductio ad unum nella figura
dell’imperatore, “legibus solutus”.
1. Il carattere più evidente della
trasformazione è tale superiorità dell’imperatore alla legge.
2. Una seconda caratteristica di tale
epoca che interessa più da vicino lo storico del diritto consiste nel
progressivo deperimento delle fonti materiali di conservazione del diritto
romano classico: dall’uso dei papiri si passa ad altri tipi di supporto.
Nascono i primi “codici”: insieme di fogli, generalmente di pergamena, cuciti
insieme sul dorso.
Tale mutamento di supporto testuale
condiziona il rapporto del giurista con il testo. La nuova produzione
giuridico-letteraria è caratterizzata, infatti, da un approccio selettivo – e
non più “consecutivo” come accadeva con il papiro- all’opera. L’autore può ora
selezionare testi o parti di testo e raccoglierli in un nuovo codice in vista
di un precipuo scopo che si è prefissato.
I mutamenti finora descritti sono ben
evidenti nelle prime due raccolte – sebbene non ufficiali- di costituzioni
imperiali: i cd codici Gregoriano ed Ermogeniano. La netta prevalenza delle leges sugli iura da essi testimoniata, segna la trasformazione di mentalità
determinata dal nuovo assetto “costituzionale”.
Già in età dioclezianea, tuttavia, si
hanno le prime manifestazioni di crisi. Molteplici ne furono le cause. Da un
lato imperversava una crisi di natura economica, determinata dalla fine delle
espansioni territoriali dell’impero e dal conseguente arresto della crescita economica,
da sempre parallela alla crescita dell’impero il quale traeva le proprie “fonti
di reddito” dal continuo rifornimento, nelle terre conquistate, di nuova
manodopera servile e dalla sottoposizione a tributo dei nuovi territori ad esso
annessi. A ciò si aggiunga la forte incertezza nel passaggio da un imperatore
all’altro che sottoponeva periodicamente l’impero a violente lotte intestine.
Diocleziano intervenne con riforme
radicali, che tuttavia si rivelarono, tutto sommato, fallimentari:
1)
Tetrarchia: l’impero dovrebbe diventare un’istituzione astratta capace di
rimanere sempre in vita rinnovandosi da sola;
2) Nuovo
sistema fiscale: improntato all’efficienza (iuga
e capita) e che, tuttavia, non prende
in considerazione il “deficit di bilancio”, imponendo una tassazione
determinata dalle esigenze annuali della res publica e non dalla produttività
dei cespiti.
Tale
condizione determinerà una grossa trasformazione, sociale prima ancora che
giuridica. Il bisogno di garantire la costanza di reddito porterà molti
contadini a legarsi, mediante la cessione delle proprie terre, a dei “potentes”, configurando una prima forma
di rapporto “prefeudale”.
Un
secondo mutamento proviene dalla tendenza delle costituzioni imperiali a
collegare i cittadini alla loro funzione economica, per garantire la
sopravvivenza del tessuto economico delle città, da un lato, ed evitare lo
spopolamento delle campagne, dall’altro. Si rafforzano, così, le corporazioni
di mestiere, i collegia, e si crea il legame
del contadino alla propria terra, limitandone di fatto la libertà.
Dal punto di vista del diritto privato
tutte questi mutamenti danno origine ad uno status intermedio, diverso dai
“liberi” e dagli “schiavi” e sconosciuto al diritto romano classico.
3)
Persecuzioni dei cristiani: difesa della tradizione di fare sacrifici
all’imperatore, rivolta, altresì all’introito, nelle casse statali dei beni
raccolti attorno agli edifici di culto, utilizzati dalle comunità cristiane a
fini di beneficienza nei confronti dei più bisognosi – soprattutto a seguito
della forte pressione fiscale determinata dalla nuova politica economica. Tale
confisca fu possibile mediante l’applicazione, nei processi ai cristiani, della
procedura speciale per lesa maestà, caratterizzata dalla tortura diretta alla confessione
o alla denuncia degli altri “partecipanti al complotto contro l’imperatore”.
La situazione subisce un decisivo cambio
di rotta con l’avvento di Costantino – 312, battaglia di Ponte Milvio,
sconfitta di Massenzio- e la sua nuova politica, favorevole alla religione
monoteista cristiana, che meglio riflette la sua concezione dell’imperatore e
del potere: unico, come uno e solo è il Dio che gli ha conferito tutti i
poteri.
La vera novità del programma
costantiniano non consiste, tuttavia, nella proclamazione di un unico potere,
sul piano giuridico, ma negli sforzi profusi dall’imperatore nell’unificazione
della fede sotto un unico credo e, in definitiva, nella sagace intuizione per
cui non è il potere politico a tenere insieme la compagine sociale ma la fede e
la religione. La teologia comincia diventare il fondamento del sistema
costituzionale imperiale.
L’assetto derivato dall’attuazione del
programma di Costantino caratterizzerà per molti secoli l’Europa e la società
cristiane.
Nel 313, con l’Editto di Milano, che
consentì ai “conventicula cristianorum” di praticare il proprio culto, viene
disposta la restituzione dei beni che sotto Diocleziano erano stati oggetto di
confisca, non alle singole persone ma alle comunità cristiane. Le varie ecclesiae diventano, mano a mano, nuclei
svolgenti una funzione economico sociale parallela alle istituzioni laiche.
Con una costituzione imperiale del 321,
inoltre, le comunità cristiane divengono capaci di ricevere donazioni, eredità
e legati. Il conferimento alle chiese di beni ereditari, inoltre, diviene privo
di formalità: gli eredi non possono impugnare questo tipo di testamenti per
motivi formali. Tutto ciò determina un ampio processo di spostamento della
ricchezza dalle famiglie agli enti ecclesiastici.
Sebbene non definite “persone”
giuridiche, la capacità delle ecclesiae di essere titolari di beni le rende, di
fatto, nuovi soggetti di diritto privato.
Un’altra novità introdotta da Costantino
fu l’episcopalis audientia, una
forma di risoluzione delle controversie extragiuridica ma riconosciuta
dall’impero. Essa non seguiva le regole procedurali e sostanziali del diritto
statale, ma quelle del potere carismatico che rappresenta la particolare
attitudine al governo delle comunità conferita direttamente da Dio e che
troverà la propria più ampia estrinsecazione nella vita monacale. Diversamente
dall’arbitrato classico, tuttavia, questa è una forma di arbitrato obbligatorio
che si attiva non appena una delle due parti in causa decide di adire
l’autorità ecclesiastica invece che quella statale. Le sentenze sono, inoltre,
inalienabili.
L’ultimo atto che qualifica la politica
costantiniana e che meglio descrive i fini di unificazione religiosa, sociale
e, di riflesso, politica è la convocazione, nel 325 del concilio di Nicea, per
la risoluzione del problema “cristologico” della natura di Cristo.
Gli esiti del concilio furono tuttavia
parzialmente differenti: la natura divina di Cristo produsse, sul piano
costituzionale, un dualismo tra potere laico e potere sacerdotale, altra
fondamentale caratteristica dell’Europa occidentale.
Il progressivo consolidamento del potere
sacerdotale e l’ascesa del potere preminente del vescovo di Roma
determineranno, infatti, un nuovo assetto dell’impero caratterizzato dalla
compresenza di due poteri.
Tale rapporto è ben percepibile
nell’episodio del 380 della strage di Tessalonica, avente come protagonisti
Teodosio I imperatore e S. Ambrogio vescovo di Milano. In occasione del
pentimento dell’imperatore, verrà così esplicitato per la prima volta il principio
secondo cui la chiesa si trova nell’impero e, in quanto istituzione statale, ne
segue le regole, ma l’imperatore, in quanto fedele deve seguire le regole
spirituali.
A
cura di Chiara Casuccio
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