Uno dei momenti i cui la legge, le contingenze storiche e le ideologie
convergono in modo eclatante è un avvenimento: la Rivoluzione francese del 1789.
Uno dei punti di riferimento teorici della rivoluzione fu il filosofo
illuminista Rousseau (1712 -1778), che si dedicò
tra le altre, ad opere sulle teorie generali che dovrebbero orientare il
diritto. Nel 1762 pubblicò il suo Contratto
Sociale, le cui dottrine costituiscono uno dei principali rifermenti della
Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e dell’assetto
istituzionale che assunse la Francia rivoluzionaria; si può dire che la
rivoluzione francese portò alla realizzazione concreta di alcune idee formulate
in via teorica dal filosofo.
Le dottrine sul contratto sociale vennero sviluppate anche in seguito alla
crisi del terremoto di Lisbona e sono intrise di quel disincantamento del mondo
tipico dell’epoca illuministica. Anche Rousseau, infatti, esclude dalla sua
nozione di potere la derivazione divina di questo. Il potere roussoniano deriva
dal popolo ed è il popolo a detenerne la titolarità anche quando il potere viene
conferito, mediante un contratto sociale, ad un sovrano che lo eserciti per
conto dei cittadini. Il contratto sociale di Rousseau, dunque, non aliena
definitivamente il potere ma lo conferisce mediante una sorta di mandato.
Questo potere non è affatto un potere a immagine del potere divino e non è,
pertanto, insindacabile. L’impianto rousseauiano si basa su un’idea di democrazia
secondo la quale è il popolo, titolare del potere, che attraverso le proprie
istituzioni rappresentative orienta tutto l’ordinamento ed anche l’agire del
sovrano. L’ Assemblea conserva l’autorità popolare ed il suo potere è assoluto,
essa controlla l’operato di tutte le altre istituzioni esprimendosi attraverso
la legge: con Rousseau si inaugura un’epoca di assolutismo legislativo senza il
contrappeso di altri poteri che ne limitassero la portata.
Tutto ciò trova ben presto conferma nella storia. Per la prima volta dopo
decenni di inattività vennero riconvocati gli Stati generali, le assemblee rappresentative del clero della
nobiltà e del terzo stato. Già nel giugno 1789 venne raddoppiata la
rappresentanza del terzo stato, definito dall’ abbate Sieyès come la nazione
dei francesi, oppressa dagli altri due stati dell’antico regime. Il peso ormai
insopportabile del sistema di vincoli alle persone ed alle cose imposto dall’antico
regime, ed il crescente fermento sociale sono testimoniati da una serie di
documenti prodotti dalle assemblee locali, i cd cahiers des doléances,
letteralmente i quaderni delle lamentele. Essi rappresentano uno straordinario catalogo
delle doglianze del popolo francese contro il potere esercitato dai signori
locali e dalle autorità ecclesiastiche, in base ai vincoli di carattere patrimoniale
sulla cosa concessa al dominus utilis,
secondo il tipico modello feudale e che tuttavia comportavano, come abbiamo
visto, anche poteri di natura pubblicistica di costrizione, incarcerazione ed
esercizio tout court della
giurisdizione penale e di prelievo. Essi sono, in altre parole, le critiche
sollevate dalla nazione stessa contro lo stato, e tutte le manifestazioni del
potere signorile feudale che determinavano la costrizione dei ceti meno
abbienti e l’inalterabilità della loro condizione.
L’assetto costituzionale che si stabilisce dopo la presa della Bastiglia il
14 luglio 1789 è, in questo senso, tipicamente rousseauiano: vennero distrutti
tutti i simboli dell’antico regime e una grande assemblea nazionale venne posta
a controllo di tutte le attività di governo, esercitando tale potere mediante
la legge; il governo ed i magistrati attuavano, così, la legge alla stregua di macchine, senza avere la possibilità di
incidervi. Con la legge si perseguiva ogni tipo di intervento del potere del
popolo sulla sua propria nazione; qualsiasi attività di governo e gestione
doveva essere enunciate mediante strumento della legge che le autorizzava.
L’attività di governo non autorizzata era illegittima ed in quanto tale doveva
essere soppressa.
Vennero, poi, eliminati tutti i vincoli alla piena disponibilità dei
diritti imposti dall’ antico regime che limitavano i poteri della volontà dei
cittadini e dei beni. Il sistema del “possesso
dei diritti” determinava, infatti, l’immobilità dell’economia a scapito delle
aspirazioni di miglioramento del terzo stato: la libera disponibilità delle
cose è la premessa fondamentale allo sviluppo del capitalismo borghese;
l’accumulazione capitalistica non sarebbe possibile se le cose non fossero
libere.
La disposizione legislativa che determinò la liberazione integrale ed
improvvisa da tutti i vincoli feudali ha pochi paragoni nella storia europea:
essa determinò l’abolizione della base giuridica sulla quale qualcuno
esercitava un proprio diritto dal contenuto economico consolidatosi nel tempo,
senza prevedere alcun indennizzo- in contrasto con i principi di diritto romano
in tema di espropriazione (indennizzo e pubblica utilità). È un provvedimento, questo,
tipico della rivoluzione che espropria i diritti semplicemente perché ritenuti
ingiusti. Vennero, infine, confiscati tutti i beni ecclesiastici con un grande
introito per le casse statali rivoluzionarie.
I due diritti fondamentali che erano stati compressi dal sistema
dell’antico regime e che ora chiedevano riconoscimento erano la libertà e proprietà. La libertà pretesa è, ovviamente, quella descritta nella
Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, ma a monte essa presuppone
un concetto di contenuto più economico: libertà dai doveri imposti alla persona
dal regime feudale, secondo il sistema di possesso
dei diritti. Per essere suscettibili di possesso alcuni diritti erano stati,
infatti, considerati alla stregua di diritti reali anche se non avevano, di
fatto, un contenuto reale in cui oggetto del diritto e del relativo potere non
era la cosa ma la persona stessa. Questa estensione incontrollata del possesso aveva
portato a considerare tutta una serie di posizioni come permanentemente
subordinate ad altre, che esercitavano la loro autorità sopra al corpo di una
persona formalmente libera, qualificando tale condizione di assoggettamento
come una servitù irregolare. Libertà,
in definitiva, significa libertà del corpo del cittadino che non deve essere
gravato dal potere altrui. La rivoluzione francese limitò i vincoli di
assoggettamento ad un’unica eccezione transeunte: la minore età. Il concetto di libertà si applica anche al secondo
grande diritto, la proprietà, che rappresenta un’analoga libertà sulle cose,
mediante l’abolizione di tutti i vincoli sui beni che ne impedivano la libera
circolazione in quanto gravate dal potere di qualcun altro.
Il passaggio rivoluzionario operò, in sostanza, la principale semplificazione
del diritto privato la cui mancanza aveva determinato l’impossibilità di una
semplificazione sostanziale del diritto del codice prussiano: l’unità del
concetto giuridico di persona e l’unità della cosa in diritto.
Lo stato democratico in cui non vi
era più un bilanciamento tra poteri diversi, tuttavia, produsse un cortocircuito:
gli interessi di alcune parti della popolazione, la borghesia, cominciarono ad
incidere in maniera preminente sull’assemblea legislativa. L’assolutezza del potere
popolare degenerò nel cd Periodo del Terrore, in cui moltissimi cittadini
vennero processati in base al sospetto di aver ordinato un complotto contro la
nazione. Le istituzioni si autolegittimavano, così, attraverso la persecuzione
dei complotti creando unione e approvazione mediante la creazione artificiale
di nemici comuni.
Il diritto cd intermediario oltremodo innovativo, degli anni della rivoluzione,
subì, una decisa inversione di marcia con il Code Napoléon, soprattutto per quanto riguarda il diritto di
famiglia poiché, con le trasformazioni in questo campo si era andata minare proprio
la struttura stessa della società francese.
Uno degli elementi per capire la trasformazione europea post rivoluzionaria
è anche la forte fase di espansione militare della Francia in tutta Europa. È
in questo contesto che si inserisce l’ascesa del futuro imperatore Napoleone
Bonaparte. Grazie alle conquiste in territorio tedesco, italiano e spagnolo la
cultura giuridica conobbe un nuovo momento di unificazione. In questi anni tutta
l’Europa entrò in contatto con gli effetti della Rivoluzione francese e ne
venne segnata profondamente. Parigi venne
considerata la nuova “capitale d’Europa”, punto di riferimento del progresso
dello stato liberale. Tutte le sperimentazioni istituzionali, i moti
rivoluzionari, le innovazioni costituzionali nacquero da Parigi. L’espansione
militare aveva prodotto una centralità del mondo francese senza precedenti.
Tra i suoi obiettivi Napoleone pose anche la sistemazione di tutto il
diritto privato sotto la forma di un codice chiaro e comprensibile da tutta la
nazione. Il risultato fu un piccolo codice dalla chiarezza quasi “cartesiana”,
espressione concreta dell’utopia illuminista di sistemazione del diritto
secondo schemi razionali. Egli voleva fare dell’ordinamento un’infrastruttura
al servizio dello sviluppo economico e sociale della nazione. Il Code Napoléon
è, infatti, un tipico codice borghese tutto organizzato attorno all’istituto
della proprietà, che prevale addirittura sulle forme contrattuali, relegate in
un separato codice del commercio.
Uno dei pochi elementi di innovazione rivoluzionaria a rimanere in piedi
nel codice e poi anche dopo l’età della Restaurazione, fu il principio
enunciato nella legge Le Chapelier
nel 1791 dall’assemblea nazionale: sul presupposto teorico che anche le
associazioni configurassero un privilegio di qualcuno sul corpo di qualcun
altro, si stabilì il principio per cui non può essere imposto nessun limite
all’economia che non sia voluto dallo Stato stesso, determinando come
necessaria conseguenza lo scioglimento di tutte le associazioni corporative e
la necessità di un riconoscimento da parte del potere centrale per le società
commerciali. Tutte le associazioni per essere considerate persone giuridiche e,
dunque, soggetti di diritto dovevano essere autorizzate dallo Stato. Le
associazioni, soprattutto di mestiere, che controllavano la produzione e
l’economia del paese, nel rispetto di una tradizione diffusa in tutta Europa,
infatti, contrastavano con il principale elemento del nuovo diritto borghese:
l’individualismo. Nessun corpo intermedio si sarebbe dovuto frapporre tra lo
Stato ed il cittadino: dal 1791 in poi ogni cittadino divenne solo davanti allo
stato, senza la tutela di alcuna associazione intermedia, ed anzi lo stato
divenne l’unico a detenere il diritto-dovere di prendersi cura dei singoli.
L’imperatore Napoleone, poi, riformò anche l’insegnamento universitario del
diritto con l’obiettivo principale di fondare una cultura giuridica unitaria.
Tutte le università divennero succursali di quella di Parigi che ne determinava
i modi e metodi di insegnamento. Lo studio teorico del diritto divenne, per
volontà dell’imperatore stesso, un’esegesi
del codice: un commentario secco al testo, una nuda spiegazione del contenuto
degli articoli della norma, senza la possibilità per il giurista – così come
per il magistrato- di interpretarli sistematicamente. Napoleone voleva,
infatti, che il suo codice fosse autosufficiente e portò all’estremo il
positivismo nato in ambito rivoluzionario, arrivando a negare l’autorevolezza
giuridica dei concetti di derivazione tradizionale o culturale non fissati
dalla legge. Il modello di insegnamento francese viene definito dalla
storiografia del diritto come “scuola
dell’esegesi”.
Anche dopo la restaurazione molti stati, soprattutto italiani, mantennero
il modello del codice napoleonico: il Regno delle due Sicilie promulgò il
proprio codice già nel 1819 e quello di Sardegna nel 1837. Rimasero avulsi da
tale sistema il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, ma
complessivamente si può affermare che quasi tutta l’Europa continentale operò
la scelta per un diritto codificato,
un diritto, cioè, razionalmente semplificato che aveva abbandonato il complesso
sistema del diritto comune.
La Germania operò, invece, una
scelta diversa. Nel 1814 essa si
sottopose ad un acceso dibattito sulla convenienza o meno di adottare una
codificazione. V’è anche da considerare il connesso problema che, in generale, si
pose alla scienza giuridica dell’800, intenta ad indagare circa il ruolo più o
meno creativo del giurista e l’essenzialità o meno del suo operato ai fini
della completezza del sistema. In questo contesto, si contrapposero le
soluzioni di due grandi giuristi dell’epoca: Thibaut e Savigny. Thibaut propose una codificazione
unitaria per tutta la nazione tedesca: voleva creare, secondo il modello
universalista illuminista, mediante un’operazione razionale un’infrastruttura
giuridica valida per tutti i principati tedeschi, con l’obiettivo eminentemente
economico di facilitarne gli scambi commerciali. Egli era convinto, da buon romantico
e nazionalista, della germanicità unitaria di tutti i popoli tedeschi. Dal
canto suo, von Savigny riteneva che
la giuridicità di una norma non dovesse derivare dalla razionalità o
dall’imposizione formale di una legge ma dallo spirito del popolo stesso, che
riconosceva una regola come giuridica e dunque vincolante. Ciò che avrebbe
accomunato i popoli tedeschi, dunque, non sarebbe stata l’imposizione della
razionalità di un sistema artificiale ma la loro tradizione comune, la storia.
L’identità giuridica dei popoli risiedeva nella storia ed in essa andava
ricercata.
In questa ricerca, la scuola storica di Savigny si “appropriò” del diritto
romano, usando le fonti del diritto civile antico per costruire un diritto
civile tedesco. Tale appropriazione venne giustificata da Savigny, ancora una
volta, tramite la storia all’esito di un
percorso intellettuale che va dalla pubblicazione di un trattato sul possesso
nel 1803, passa dal 1814, anno in cui è viva la polemica sulla “ vocazione del
nostro secolo per la legislazione e la scienza del diritto” – citando il titolo
del suo componimento, e approda alla pubblicazione, nel 1815 del trattato “Storia del diritto romano nel medioevo”, in cui il giurista espone che fu
proprio il passaggio del diritto romano attraverso il germanissimo medioevo a
giustificarne l’appropriazione. Tutto ciò rappresenta la fondamentale premessa
all’opera più matura di von Savigny: System
des heutigen römischen Rechts, letteralmente “il sistema del diritto romano
attuale”, il diritto romano, dopo una minuziosa ricerca delle fonti necessarie
a ricostruirne il volto originario, venne riproposto attualizzato come diritto
vigente. La nuova scienza romanistica riorganizzò i concetti del diritto romano
estraendo quelli più importanti e ponendoli alla base di un nuovo sistema di
diritto civile. Il diritto tedesco venne così affidato non alla codificazione
ma alla scienza giuridica, intenta a rielaborare i contenuti del diritto romano
mediante la costruzione di un enorme castello di concetti portanti -Begriffe- e di categorie generali del
diritto. La branca della scuola storica che si occupò di riorganizzare i
concetti delle norme del Digesto per inventarne di nuovi e più generali, come
quello del “negozio giuridico”, prende il nome di Pandettistica.
La Germania divenne così il tempio della scienza giuridica, meta di
pellegrinaggio da parte dei giuristi di tutta Europa. Tale centralità si estese
fino in Francia ed in Italia, nonostante la presenza del codice; esso, anzi,
venne reinterpretato alla luce della nuova scienza dei Begriffe. Aubry e Rau furono i primi a redigere un
commentario al codice francese utilizzando la tecnica di riorganizzazione dei
concetti. La necessità di apprendere questa nuova metodologia, inoltre, provocò
una grandissima ondata di opere di traduzione da parte dei migliori giuristi
italiani, non senza riadattamenti alle esigenze della situazione normativa
italiana.
Sia l’impianto borghese dei codici moderni, sia l’elaborazione del diritto
romano della pandettistica ebbero come risultato un forte individualismo che,
se da un lato permetteva il progresso economico, l’accumulazione capitalistica
e la parità di tutti i soggetti dinanzi allo Stato, dal punto di vista
economico-sostanziale creava forti iniquità per tutti i soggetti che, seppur
affrancati dai vincoli, non avevano la concreta possibilità di avanzamento.
Cominciarono, quindi, ad entrare in conflitto la scienza del diritto, che aveva
ad oggetto una società del tutto astratta e diversa da quella reale, e la
scienza economica che criticava aspramente i fondamenti degli ordinamenti
europeo: la logica strettamente individualista, infatti, aveva provocato
effetti socialmente inaccettabili.
L’abolizione delle forme di possesso dei diritti, tipiche dell’epoca
medievale, con la conseguente eliminazione delle tutele di natura reale al
diritto vantato, se è vero che aveva creato l’uguaglianza contrattuale dei
soggetti, tuttavia, in quanto artificio, era concretamente un’ingiustizia. La
grande disuguaglianza che prima era determinata dalla legge del codice
prussiano diviso in 4 categorie di soggetti, era ora negata dalla legge, ma
determinata dall’economia stessa.
Ciò accadde ad esempio per quanto riguarda il contratto di locazione degli immobili di abitazione, considerato un
rapporto meramente obbligatorio, in cui con l’esaltazione del diritto di
proprietà, il locatore poteva in qualunque momento sfrattare il conduttore, che
non aveva alcuna forma di tutela reale sulla cosa locata e che dunque non
poteva chiedere la reintegra nel possesso, qualora fosse venuta meno la volontà
iniziale; ed accadde, a fortiori, nel contratto di lavoro in cui due soggetti
formalmente identici non avevano uguale forza contrattuale dal punto di vista
economico, poiché, tra l’altro, le associazioni sindacali a tutela dei
lavoratori erano illegittime in quanto considerate “corpi intermedi”.
L’ottocento fu un’epoca di forte conflittualità economica che spesso sfociò
in episodi di irrequietezza sociale, culminati nei moti del ’48. Era dunque
necessario inserire all’interno degli ordinamenti forti elementi di socialità
che temperassero le iniquità sostanziali. Furono proprio le dottrine economiche
a proporre le prime innovazioni legislative.
Nella prima metà dell’800 dalla scuola storica si diramò un’ulteriore branca,
fortemente romantica: quella dei Germanisti.
Essi criticarono Savigny per aver posto al centro dell’ordinamento tedesco
il diritto romano, fortemente individualistico, poiché i tedeschi rispondevano
a ben altre caratteristiche. Menzioniamo i due principali istituti giuridici
che i germanisti individuavano nella tradizione tedesca, opponendoli ai loro
corrispondenti romani.
1. La prima grande
caratteristica dei popoli germanici era la loro identità corporativa: il singolo individuo non era solo dinanzi
allo stato vi erano diverse comunità che si prendevano cura delle sue esigenze,
prestandogli aiuto e soccorso affinché nessuno rimanesse senza tutele; la
nazione tedesca era l’unione di tutti questi diversi corpi. I Germanisti
insistettero molto su questo concetto di Genossenschaft,
della funzione, cioè, costitutiva e costituzionale della corporazione in
Germania.
2. I popoli
germanici avevano poi posto al centro dei loro ordinamenti la gewere che, consistendo in un sistema
di distinzione labile tra diritti reali e obbligazioni, comportava che la
tutela del proprio diritto fosse svincolata dalla titolarità e legata piuttosto
all’apparenza.
Una delle personalità che si occupò di formulare una giustificazione
storica di questa impostazione fu Otto
von Gierke, giurista molto sensibile alle istanze sociali e impegnato per
la costruzione di un diritto nazionale tedesco fortemente solidaristico.
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I Germanisti spinsero, quindi, per una risistemazione del diritto privato
affinché la legge si facesse carico di alcune esigenze che, per definizione,
private non sono, poiché sociali. La
Germania si stava avviando, così, verso la codificazione tedesca, concretizzata
nel BGB del 1900. Anche la Francia
cominciò, progressivamente, ad accogliere istanze analoghe, e nonostante la
scelta nazionale per la legislazione la cultura giuridica svolse un ruolo di
stimolo nei confronti del legislatore.
A cura di Chiara Casuccio
1 commento:
Molto interessante
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