martedì 31 ottobre 2017

Lezione del 30 ottobre: Il rinnovamento del secolo XI

Lezione 30.10.2017
Il primo secolo del II millennio è un’epoca di grandissimo rinnovamento, sia dal punto di vista sociale, sia – soprattutto- dal punto divista storico- giuridico: i caratteri fondamentali della grande trasformazione del pensiero giuridico europeo operata a partire dal primo secolo del secondo millennio sono, ancora oggi, alla base del modello del diritto in Occidente.
Giova preliminarmente prendere le distanze da un aspetto peculiare che ha influenzato gran parte della storiografia – soprattutto ottocentesca- e che oggi deve ritenersi superato: l’impostazione tradizionale dello studio della storia del diritto considera l’evoluzione del diritto stesso partendo prevalentemente dalle vicende di eclissi e ricomparse del diritto romano e della compilazione giustinianea, ponendo al centro dell’analisi storica i testi del CJC – e in particolare del Digesto, depositario della juris prudentia classica-. Tale lettura Digesto-centrica è, tuttavia, una visione parziale e tralascia di approfondire quella peculiare complessità di diritti e di principi della cd “età di mezzo”, determinata dalla confluenza di diversi ambienti, primo fra tutti la Chiesa, nella creazione di nuovi istituti giuridici. V. ad es. la disciplina del contratto, influenzata dalle elaborazioni del diritto canonico e della teologia.
La trasformazione profondissima di questo periodo è, stata definita nel 1983 da Harold Berman, nel suo libro “Law and Revolution” come, appunto, “rivoluzione papale”.
Gli ambienti politici che hanno preso il sopravvento nella Chiesa dell’XI sec. hanno, infatti, indotto una trasformazione della mentalità e della società tali da trasformare tutta l’Europa.
I secoli precedenti, come abbiamo visto, sono caratterizzati da fenomeni di particolarismo: sia per quanto riguarda il potere laico sia per quanto riguarda il potere religioso e l’organizzazione della gerarchia ecclesiastica. Entrambi tali fenomeni rappresentavano, tuttavia, un vulnus all’esigenza strutturale di unità della Chiesa. Da un lato, l’indebolirsi del potere centrale imperiale il frazionamento delle giurisdizioni e la commistione tra potere pubblico e potere privato, avevano determinato il fallimento del progetto di unificazione della res publica christiana. Al lato opposto, fenomeni di decentramento del potere si erano verificati anche in ambito ecclesiastico, soprattutto a seguito della prassi di concentrare nella figura del vescovo sia prerogative di carattere religioso sia prerogative laiche mediante apposita investitura, con evidenti effetti sulla comunione di credo e di unità del potere papale.
Tale assetto generale determinò, nell’XI sec., una reazione da parte di alcune componenti della Chiesa, volta al recupero dei beni e le prerogative ecclesiastiche caduti sotto il controllo di poteri laici ormai solo teoricamente dipendenti dall’Impero: essa si concretizzò in uno sforzo di concentrazione del potere nella sede pontificia. Analogo fenomeno si riscontra in ambito laico con il cd “recupero delle regalie”, ovverosia di quegli elementi del potere che non possono essere esercitati aliunde, ma che di fatto, erano stati “frammentati” in tanti piccoli centri. Le due opposte tendenze – quella laica e quella ecclesiastica- porteranno alla cd lotta per le investiture, culminata nella famosa scomunica di Enrico IV.
Il tentativo di ampliamento e recupero dei poteri ecclesiastici alla base della riforma gregoriana presuppone un postulato fondamentale: per l’ottenimento di quella ricercata unità di credo prima che di potere è necessario un allontanamento del divino dalla comunità terrena e la costituzione di un’istituzione astratta, la chiesa gregoriana appunto, che si proponga come unica mediatrice tra divinità e umanità.
In quest’ottica venne ripensato anche il ruolo dello Spirito Santo, rivisitato in favore della figura del clero: da una visione in cui lo Spirito Santo era quella persona della trinità concretramente presente nelle comunità cristiane, si passò ad una in cui l’intervento dello Spirito veniva evocato, attraverso i sacramenti, dall’ecclesiastico solo nel momento in cui si volevano produrre determinati effetti. Attraverso questa trasformazione di natura teologica, si ottiene, tuttavia, il risultato pratico di affidare unicamente ai chierici il potere propriamente “istituzionale” di mediare tra divino e umano.
Alcune delle proposizioni della riforma caratterizzeranno le successive teorie “costituzionali” di giustificazione del potere pubblico. Secondo la teoria di Ian Assmann, infatti, la costituzione del potere tour court pubblico avviene, proprio allorquando si crea uno “spazio” di esercizio del potere, mediante l’allontanamento della divinità dalla realtà umana: in tale ottica il potere pubblico diviene l’unico mediatore tra il divino e l’umano e la religione una giustificazione dell’esercizio concreto del potere.
Attorno alla metà dell’XI sec. il programma politico, nato dai postulati di correzione etica del comportamento dei chierici elaborati nell’ambiente monastico di Cluny, divenne sempre più un programma politico papale che culminò nella grande riforma gregoriana, dal nome del più radicale interprete delle idee riformiste, papa Gregorio VII.
Attraverso la moralizzazione del clero, infatti, il partito gregoriano tendeva, ancora una volta, alla costituzione di un ceto di funzionari ecclesiastici perfettamente distinto dal laicato: a ben vedere, infatti, molti dei punti della riforma, lungi dall’essere di carattere meramente moralistico, sono espressione di quella più ampia tendenza al recupero della distinzione tra pubblico e privato che era scomparsa a causa delle ricordate contingenze storiche. La preoccupazione principale sottesa a queste regole era quella di far sì che chi ricopriva una carica ecclesiastica amministrasse i beni di cui era “investito” non nel proprio interesse ma in quello della comunità e della Chiesa. Tale prospettiva è particolarmente evidente nella cd lotta alla simonia – la profana utilizzazione e messa in commercio delle res sacrae- e al concubinato del clero e alla conseguente tendenza alla trasmissione dei beni ecclesiastici ai propri discendenti, con l’inevitabile dispersione del patrimonio della Chiesa.
Lo spazio delle istituzioni pubbliche è distaccato dalle vicende terrene.
Il rinnovamento si configura anzitutto nell’azione del papato per la riconquista di un’organizzazione verticistica della chiesa, una riacquisizione di un potere centrale di natura propriamente “imperiale”.
La statuizione di principi generali in base ai quali fosse possibile esercitare il potere papale così qualificato viene esplicitata in un documento del 1075 dalla natura controversa che prende il nome di “dictatus papae”. Esso è collocato nel registro delle lettere del papa e contiene una serie di proposizioni e principi che sembrano formare un vero e proprio programma politico improntato all’affermazione della sovranità e superiorità del papa sopra ogni altro potere.
Tale aspetto della sovranità papale è particolarmente evidente nella nuova impostazione del sistema giurisdizionale ecclesiastico con la previsione della possibilità di appello al papa in caso di ingiustizia della sentenza emanata dall’autorità vescovile: si tratta di un principio nuovo, affermato dal Dictatus papae che ribalta la dichiarazione delle Decretali pseudo isidoriane, che escludono l’appello contro la decisione del vescovo, giacché ma “la pecora può accusare il suo pastore”. L’introduzione dell’appello contro la decisione del giudice naturale (di regola un vescovo) portò alla ricerca nel diritto romano classico di regole e principi dalla struttura non più semplicemente carismatica ma più strettamente legalitaria.
Viceversa, l’autorità papale non può essere mai essere messa in discussione, né all’interno da altre autorità ecclesiastiche, né all’esterno, dall’imperatore. Se, pertanto, è vera la distinzione gelasiana dei poteri, temporale ed ecclesiastico, ma in base alla nuova dichiarata superiorità papale, tali poteri non hanno tuttavia pari forza.
Questi diversi aspetti spingono tutti verso la valorizzazione della norma giuridica quale strumento di manifestazione della volontà dell’istituzione che deve essere generalmente osservata. L’introduzione del cambio della mentalità europea avvenne, allora, proprio grazie alla riforma gregoriana la quale, nel tentativo di controllo delle devianze del clero e con la ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, introdusse delle norme dalla struttura fortemente legalitaria determinando un ritorno al pensiero giuridico classico, che non era mai stato completamente dimenticato.
Si capovolge, anzitutto, l’antitesi veritas-auctoritas: non v’è norma vigente che non sia autentica, ossia dotata di auctoritas; si respinge l’idea di falsificazione: per rendere la regola una norma giuridica cogente vi deve necessariamente essere una forma giuridica accertata. Tale rinnovata importanza dell’autenticità della norma porterà alla ricerca di fonti antiche in grado di giustificare i postulati del Dictatus. Da questa ricerca di testi nasceranno nuove collezioni
Proprio in questo quadro si colloca anche la prima ricomparsa testuale di brani del Digesto: la Collectio Britannica ca.1090. Essa consiste in un manoscritto dalla paternità romana accorpante, in ordine cronologico, lettere papali della tarda antichità e brani del Digesto trascritti parola per parola, scelti a seconda della convenienza del loro contenuto.  
V’è, però, un altro e precedente “indizio” della ricomparsa del Digesto: il Placito di Marturi del 1076. Esso non è un indizio propriamente testuale ma rappresenta il verbale degli atti di un processo riguardante i beni della chiesa di Marturi.
A cura di Chiara Casuccio 

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