Lezione
30.10.2017
Il primo secolo del II millennio è
un’epoca di grandissimo rinnovamento, sia dal punto di vista sociale, sia –
soprattutto- dal punto divista storico- giuridico: i caratteri fondamentali della
grande trasformazione del pensiero giuridico europeo operata a partire dal
primo secolo del secondo millennio sono, ancora oggi, alla base del modello del
diritto in Occidente.
Giova preliminarmente prendere le
distanze da un aspetto peculiare che ha influenzato gran parte della
storiografia – soprattutto ottocentesca- e che oggi deve ritenersi superato:
l’impostazione tradizionale dello studio della storia del diritto considera
l’evoluzione del diritto stesso partendo prevalentemente
dalle vicende di eclissi e ricomparse del diritto romano e della compilazione
giustinianea, ponendo al centro dell’analisi storica i testi del CJC – e in
particolare del Digesto, depositario della juris
prudentia classica-. Tale lettura Digesto-centrica è, tuttavia, una visione
parziale e tralascia di approfondire quella peculiare complessità di diritti e
di principi della cd “età di mezzo”, determinata dalla confluenza di diversi
ambienti, primo fra tutti la Chiesa, nella creazione di nuovi istituti
giuridici. V. ad es. la disciplina del contratto, influenzata dalle
elaborazioni del diritto canonico e della teologia.
La trasformazione profondissima di
questo periodo è, stata definita nel 1983 da Harold Berman, nel suo libro “Law
and Revolution” come, appunto, “rivoluzione papale”.
Gli ambienti politici che hanno preso il
sopravvento nella Chiesa dell’XI sec. hanno, infatti, indotto una
trasformazione della mentalità e della società tali da trasformare tutta
l’Europa.
I secoli precedenti, come abbiamo visto,
sono caratterizzati da fenomeni di particolarismo: sia per quanto riguarda il
potere laico sia per quanto riguarda il potere religioso e l’organizzazione
della gerarchia ecclesiastica. Entrambi tali fenomeni rappresentavano, tuttavia,
un vulnus all’esigenza strutturale di
unità della Chiesa. Da un lato, l’indebolirsi del potere centrale imperiale il frazionamento delle
giurisdizioni e la commistione tra potere pubblico e potere privato, avevano determinato il fallimento
del progetto di unificazione della res
publica christiana. Al lato opposto, fenomeni di decentramento del potere si
erano verificati anche in ambito ecclesiastico, soprattutto a seguito della
prassi di concentrare nella figura del vescovo sia prerogative di carattere
religioso sia prerogative laiche mediante apposita investitura, con evidenti
effetti sulla comunione di credo e di unità del potere papale.
Tale assetto generale determinò, nell’XI
sec., una reazione da parte di alcune componenti della Chiesa, volta al
recupero dei beni e le prerogative ecclesiastiche caduti sotto il controllo di
poteri laici ormai solo teoricamente dipendenti dall’Impero: essa si
concretizzò in uno sforzo di concentrazione del potere nella sede pontificia. Analogo
fenomeno si riscontra in ambito laico con il cd “recupero delle regalie”,
ovverosia di quegli elementi del potere che non possono essere esercitati aliunde, ma che di fatto, erano stati
“frammentati” in tanti piccoli centri. Le due opposte tendenze – quella laica e
quella ecclesiastica- porteranno alla cd lotta
per le investiture, culminata nella famosa scomunica di Enrico IV.
Il tentativo di ampliamento e recupero
dei poteri ecclesiastici alla base della riforma gregoriana presuppone un
postulato fondamentale: per l’ottenimento di quella ricercata unità di credo
prima che di potere è necessario un allontanamento del divino dalla comunità
terrena e la costituzione di un’istituzione astratta, la chiesa gregoriana appunto, che si proponga come unica mediatrice
tra divinità e umanità.
In quest’ottica venne ripensato
anche il ruolo dello Spirito Santo, rivisitato in favore della figura del clero: da una visione in cui lo
Spirito Santo era quella persona della trinità concretramente presente nelle
comunità cristiane, si passò ad una in cui l’intervento dello Spirito veniva
evocato, attraverso i sacramenti,
dall’ecclesiastico solo nel momento in cui si volevano produrre determinati effetti.
Attraverso questa trasformazione di natura teologica, si ottiene, tuttavia, il
risultato pratico di affidare unicamente ai chierici il potere propriamente
“istituzionale” di mediare tra divino e umano.
Alcune delle proposizioni della riforma
caratterizzeranno le successive teorie “costituzionali” di giustificazione del
potere pubblico. Secondo la teoria di Ian
Assmann, infatti, la costituzione del potere tour court pubblico avviene, proprio allorquando si crea uno
“spazio” di esercizio del potere, mediante l’allontanamento della divinità
dalla realtà umana: in tale ottica il potere pubblico diviene l’unico mediatore
tra il divino e l’umano e la religione una giustificazione dell’esercizio
concreto del potere.
Attorno alla metà dell’XI sec. il programma politico, nato
dai postulati di correzione etica del comportamento dei chierici elaborati nell’ambiente monastico di Cluny, divenne sempre più un
programma politico papale che culminò nella grande riforma gregoriana, dal nome del più radicale interprete
delle idee riformiste, papa Gregorio VII.
Attraverso la moralizzazione del clero,
infatti, il partito gregoriano tendeva, ancora una volta, alla costituzione di un
ceto di funzionari ecclesiastici perfettamente distinto dal laicato: a ben
vedere, infatti, molti dei punti della riforma, lungi dall’essere di carattere
meramente moralistico, sono espressione di quella più ampia tendenza al
recupero della distinzione tra pubblico e privato che era scomparsa a causa
delle ricordate contingenze storiche. La preoccupazione principale sottesa a
queste regole era quella di far sì che chi ricopriva una carica ecclesiastica
amministrasse i beni di cui era “investito” non nel proprio interesse ma in
quello della comunità e della Chiesa. Tale prospettiva è particolarmente
evidente nella cd lotta alla simonia
– la profana utilizzazione e messa in commercio delle res sacrae- e al concubinato
del clero e
alla conseguente tendenza alla trasmissione dei beni ecclesiastici ai propri
discendenti, con l’inevitabile dispersione del patrimonio della Chiesa.
Lo spazio delle istituzioni pubbliche è
distaccato dalle vicende terrene.
Il rinnovamento si configura anzitutto
nell’azione del papato per la riconquista di un’organizzazione verticistica
della chiesa, una riacquisizione di un potere centrale di natura propriamente
“imperiale”.
La statuizione di principi generali in
base ai quali fosse possibile esercitare il potere papale così qualificato viene
esplicitata in un documento del 1075 dalla natura controversa che prende il
nome di “dictatus papae”. Esso è collocato
nel registro delle lettere del papa e contiene una serie di proposizioni e
principi che sembrano formare un vero e proprio programma politico improntato
all’affermazione della sovranità e superiorità del papa sopra ogni altro
potere.
Tale aspetto della sovranità papale è
particolarmente evidente nella nuova impostazione del sistema giurisdizionale ecclesiastico
con
la previsione della possibilità di appello al papa
in
caso di ingiustizia della sentenza emanata dall’autorità vescovile: si tratta di un
principio nuovo, affermato dal Dictatus
papae che ribalta la dichiarazione delle Decretali pseudo isidoriane, che
escludono l’appello contro la decisione del vescovo, giacché ma “la pecora può accusare il
suo pastore”. L’introduzione dell’appello contro la decisione del giudice
naturale (di regola un vescovo) portò alla ricerca nel diritto romano classico di
regole e principi dalla struttura non più semplicemente carismatica ma più
strettamente legalitaria.
Viceversa, l’autorità papale non può
essere mai essere messa in discussione, né all’interno da altre autorità
ecclesiastiche, né all’esterno, dall’imperatore. Se, pertanto, è vera la
distinzione gelasiana dei poteri, temporale ed ecclesiastico, ma in base alla
nuova dichiarata superiorità papale, tali poteri non hanno tuttavia pari forza.
Questi diversi aspetti spingono tutti verso
la valorizzazione della norma giuridica quale strumento di manifestazione della
volontà dell’istituzione che deve essere generalmente osservata. L’introduzione del cambio
della mentalità europea avvenne, allora, proprio grazie alla riforma gregoriana
la quale, nel tentativo di controllo delle devianze del clero e con la
ristrutturazione delle gerarchie ecclesiastiche, introdusse delle norme dalla
struttura fortemente legalitaria determinando un ritorno al pensiero giuridico
classico, che non era mai stato completamente dimenticato.
Si capovolge, anzitutto, l’antitesi veritas-auctoritas: non v’è norma
vigente che non sia autentica, ossia dotata di auctoritas; si respinge l’idea di falsificazione: per rendere la
regola una norma giuridica cogente vi deve necessariamente essere una forma
giuridica accertata. Tale rinnovata importanza dell’autenticità della norma
porterà alla ricerca di fonti antiche in grado di giustificare i postulati del
Dictatus. Da questa ricerca di testi nasceranno nuove collezioni
Proprio in questo quadro si colloca
anche la prima ricomparsa testuale di brani del Digesto: la Collectio Britannica ca.1090. Essa
consiste in un manoscritto dalla paternità romana accorpante, in ordine
cronologico, lettere papali della tarda antichità e brani del Digesto trascritti
parola per parola, scelti a seconda della convenienza del loro contenuto.
V’è, però, un altro e precedente “indizio”
della ricomparsa del Digesto: il Placito
di Marturi del 1076. Esso non è un indizio propriamente testuale ma rappresenta
il verbale degli atti di un processo riguardante i beni della chiesa di
Marturi.
A cura di Chiara Casuccio
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